RiDescrivendo

Posts written by vert/mcb

  1. .
  2. .


    Pensieri spettinati.
    By Mcb
    (Lettera di una figlia)


    Torno a casa.


    La mia casa…
    erano mesi che aspettavo
    questo momento.

    Oggi torno
    e vorrei che
    questo incredibile autunno
    mi aiutasse
    a riappropriarmi
    dei miei vent'anni.

    L’auto sfreccia veloce,
    supera fattorie,
    macchine agricole,
    cavalli in corsa libera
    ed...eccola!
    L'ho immaginata
    e ricercata
    nella mia memoria,
    è la strada a destra!
    Mio Dio, quanti ricordi!
    Devo fermarmi.

    Ho gli occhi gonfi
    di lacrime.

    Rientro nel mio mondo.

    Oltre la collina c'è il
    mio mare,
    la mia casa
    stagliata in quella
    lunga striscia
    di orizzonte
    azzurro ed infinito.

    Il mio mare,
    luoghi e memorie perdute
    negli anni bruciati
    della mia gioventù.

    Scendo,
    mi batte il cuore
    davanti al cortile
    e a quel cancelletto di
    legno scrostato.

    Dietro c'è la mia casa,
    chiudo gli occhi
    che bruciano
    e ritrovo i colori
    del mio giardino.

    Ora sono qui,
    nella tua stanza
    ed ho difficoltà a muovermi.

    L'antica regina,
    le principesse luminose
    mi sono accanto sedute
    vicino alla finestra
    di questa casa semplice,
    vuota e silenziosa.

    Torno fuori,
    non so star ferma!

    Sapori e profumi
    racchiusi nella memoria
    assieme a te madre mia
    e a quel vago odore
    di speranze promesse,
    desideri accennati
    e sogni sorridenti
    che in un attimo
    riprendono vita.

    Un usignolo si è posato
    sulla mia spalla,
    conosce la mia tristezza
    e continua a cantare
    contro ogni mia
    testardaggine,
    libero, felice di appoggiarsi
    al vento
    ingarbugliando ogni mia
    consapevolezza.

    Non riesco a comprendere
    il suo canto
    e cosa mi nasconde
    quando tra i suoi occhi
    vedo il buio.

    Con la zampa si gratta
    e sorrido vedendolo
    spettinato,
    soltanto così potevi dirmi
    bentornata Lucia!

    Oggi sono tornata da
    te mamma!

    Non mandarmi via!


    ***


    (Questo video ha la sua storia, ed ora ve la racconto, così potrete comprendere perché ho scritto questa poesia nata da un fatto accaduto veramente.
    Nel 1937 una giovane maestra fascista lascia la sua casa e la sua famiglia perché contrari alla sua idea politica.
    Passano gli anni e lei si rende conto di aver sbagliato tutto, ma quando viene a sapere che gli alleati stanno per sbarcare ad Anzio/Terracina, dov'é la sua casa, decide di tornare per vivere o morire con la sua famiglia.
    Ha scritto un diario che verrà ritrovato in parte bruciato dopo il bombardamento navale e conservato da mani amiche.)


    Pensieri spettinati



    15 Dicembre 1943

    Ho finito di darmi la zappa sui piedi; dopo aver sacrificato i migliori anni della mia vita e gli affetti più cari dedicandomi anima e corpo all'idea di un rinnovamento nella scuola, idea regolarmente boicottata per volontà politica, ho detto basta!

    Amo insegnare, farei qualsiasi cosa pur di dare ai giovani una opportunità in più, ma non ci è stata concessa alcuna possibilità.
    È nei giovani il futuro di una nazione e sono certa che pagheremo duramente questa miopia, ed ora la mia decisione è definitiva ed irrevocabile.

    Se fossi certa di saper sorridere della mia situazione, senza arrabbiarmi, forse sarei anche capace di guardarmi nello specchio, ma ho paura di far male i miei calcoli e allora potrei finire per mettere le mani addosso a qualche politico imbecille!

    Non mi arrabbio più, neppure quando capisco di aver perso tutte le battaglie. Le passate certezze, i grandi sogni...tutto svanito...ma comunque vadano le cose, non sono riusciti a demolire, nel ricordo, l'amore e il grande affetto per mia madre...

    Fin da piccina sono stata per lei la sua principessa luminosa...ma poi crebbi, mi persi in sogni impossibili e mi allontanai emotivamente dai suoi insegnamenti. Non volli più essere la principessa luminosa, perdendo così la mia vera natura e la voglia di palesare i miei sentimenti. Ho sbagliato tutto! Che stupida, stupida, stupida sono stata a lasciar cadere nel nulla tutte le cose belle che avevo nel cuore. Ho lasciato scolorire la mia vita.
    Oggi ho deciso, domani torno a casa!

    17 Dicembre 1943

    Sono partita da Roma ieri mattina prima dell'alba con il FIAT 621 di Vittorio, un compaesano che, rischiando l'osso del collo, due volte al mese percorre con il suo furgone il tratto Roma-Sabaudia-Roma per portare ortaggi e frutta alle due scuole di Monte Mario, una borgata di estrema periferica.

    Con me c'erano altre cinque persone, tre uomini e due donne che non conosco, però mi hanno subito inquadrata come persona da tenere distante, senza nemmeno preoccuparsi di nascondere il loro odio.

    Forse qualcuno di loro potrebbe conoscermi, le due donne mi sembra di averle viste davanti la scuola.
    Beh...chi se ne frega! Non voglio nulla da nessuno…Vittorio, già un anno fa mi invitò a fare il viaggio con lui per tornare a casa quando la mamma cadde ammalata, ma il mio maledetto orgoglio e gli impegni con i ragazzi della mia scuola consumavano tutto il mio tempo, non lo dico per tentare di giustificarmi, ma quasi tutti quei ragazzi hanno storie difficili, noi li teniamo riuniti nella scuola insegnando loro l'abc della sopravvivenza, senza far mancare loro il calore umano di cui siamo capaci, tra l'altro non avrei saputo a chi lasciarli, ormai siamo rimaste in due maestre a prenderci cura di loro ed io non me la sono sentita di mollarli.

    Però in questi giorni sono quasi tutti con le loro famiglie per le festività del Natale e allora ho deciso di fare questo viaggio, anche se con un imperdonabile ritardo.
    Dunque figuriamoci se posso preoccuparmi di un viaggio da fare in compagnia di chi non mi ama!

    Ad ogni modo tra noi non c'è stata nessuna comunicazione. Quel loro comportamento mi ha fatto sentire peggiore di quella che non sono mai stata e tutto perché indosso una divisa...Però le volte che siamo incappati in pattuglie tedesche, il mio lasciapassare è servito come garanzia anche per loro…temo che occorrerà ben più di un secolo per cancellare dai nostri cuori tutto l'odio accumulato.

    Fa niente, è giusto così, sono stati commessi troppi errori e qualcuno deve pagare...si vede che merito il loro disprezzo!
    Ormai non ho più nulla da difendere, la mamma se n'è andata 7 mesi fa sotto un bombardamento assieme alla zia Veronica e a me è rimasta solo la nostra casa disastrata...I miei ragazzi li ho salutati uno ad uno stringendoli forte al cuore...

    Mi ha commosso il saluto del piccolo Luigi...si è tretto al mio collo piangendo sommessamente
    - Maestra - ha sussurrato - non ti dimenticare di me...perché ti voglio tanto bene.
    Poi è scappato via senza voltarsi.

    21 Dicembre 1943

    Ieri è stata un altra giornataccia, il viaggio è stato silenzioso ma non tranquillo, tra noi c'era un gelo che mi ha fatto male, ma ero consapevole di cosa mi spettasse.

    Il problema più grave è stato quello di dover tenere continuamente il naso in aria per non finire sotto le mitragliere della caccia inglese e a volte cercando riparo nei cascinali che incontravamo per non dare troppo nell'occhio.
    Durante la notte invece, arrancando a fatica nel buio rotto a tratti da una luna mai stata così splendente, è stato possibile proseguire facendo attenzione di non finire fuori strada nel superare fattorie abbandonate, macchine agricole distrutte, animali in libertà...
    Spero di arrivare al bivio per la mia casa prima che faccia giorno.

    Eccolo il bivio, lo riconosco, è come l'ho sempre visto nella mia memoria...è la strada a destra che piega verso il lago!
    Mio Dio quanti ricordi!

    Sono scesa dal furgone che era ancora buio, nessun saluto, nessun ciao...e mentre seguivo lo scoppiettante rumore del motore che si allontanava, mi batteva il cuore ed avevo gli occhi gonfi di lacrime.

    Rientro nel mio mondo.

    Prima di riprendere il viaggio Vittorio mi ha sconsigliato di attraversare il centro abitato, pare non sia prudente, chissà se c'è ancora qualcosa di sicuro in questa nostra Italia? Personalmente credo non ci sia rimasto nessuno...né amici né nemici. Il tanto sbandierato sbarco alleato avrà messo le ali ai piedi di eroi e codardi.

    Mi avvio lungo la china della collinetta che sovrasta campi ormai incolti. Avanzo lentamente, quasi non volessi più raggiungere la nostra casa.
    Ad occhi chiusi costeggiò il meleto, o quello che né è rimasto, lasciandomi guidare dal ricordo e quando li riapro mi appare lei, la casa, parzialmente distrutta, ma inzuppata nella luce di quest'alba piovigginosa.

    Per un eterno istante ho la sensazione che sia rimpicciolita, ma nell'istante in cui i miei occhi si riempiono di lacrime ingigantisce assumendo l’aspetto reale.

    Tremo talmente che mi è scivolata dalle mani la chiave di casa finendo nel fango...non importa, tanto non servirà, però mi emoziono e inizio a singhiozzare non appena sfioro con le mani il cancelletto di legno scrostato.

    Finalmente, dopo otto anni sono di nuovo al cospetto di questa vecchia casa. Vorrei che Dio mi restituisse il coraggio di restar qui con lei…debbo pagare un vecchio debito...lei è stata mia madre per quasi tutta la vita, ed io l'ho abbandonata...non posso più nascondere queste emozioni...sono troppo care, troppo vere...mi è rimasta soltanto lei!

    La scorsa notte ho sognato di vivere un ultimo giorno d’innocenza e d’ingenuità prima di morire e l’immagine era delle più intense ch’io abbia sognato in tutta la mia vita…
    Ora più che mai desidero morire tra le sue mura.

    In lontananza si odono le esplosioni dell'ennesimo bombardamento, forse su Anzio o forse su Napoli, qui siamo sulla linea Gustav e tremo come una scolaretta ad ogni scossone. Molto presto quegli aerei saranno di ritorno eforse passeranno di qui...sono mesi che aspetto questo momento…la resa dei conti!

    Serro forte gli occhi che bruciano e ritrovo i colori del mio giardino.
    Con il cuore che batte forte salgo i gradini della veranda, sfioro con le mani la porta e,
    avvertendo un antico caldo brivido di piacere, accosto ad essa le labbra sussurrando
    – Ti voglio bene!

    Entro. L'interno giace squassato in una penombra silenziosa.
    Lentamente accosto la porta poggiandovi le spalle e nel tentativo di frenare il pianto serro forte gli occhi aspirando l'aria per goderne i profumi frammisti.

    Ho l'impressione di riconoscere l'odore del legno antico dei mobili, quello acre ed umido dei ceppi nel camino e mentre in quest'aria ferma riconosco il buon aroma della carne che cuoce sulla griglia, mi tornano tutti gli altri ricordi che ancora vivi aleggiano nella mia memoria.

    Quando riapro gli occhi lascio che lo sguardo vaghi alla ricerca di quelle immagini mai dimenticate; l'immenso tavolo ora fracassato e spoglio dei fiori, la sontuosa scala con i suoi gradini rumorosi, i mobili scuri che sapevano di quiete, i miei dipinti, vanto della famiglia, allora capaci di rendermi una ragazza felice e più in la in un angolo accanto al camino, la cesta dei pisolini giornalieri del mio amato gatto "Nemo".
    Una smisurata quantità di sensazioni dolorose esplodono in me dominando la ragione, mentre le deflagrazioni si avvicinano pericolosamente.

    Salgo di sopra seguendo il percorso che facevo ogni mattina per evitare che gli scalini in legno scricchiolassero svegliando la famiglia.
    Riassaporo fragranze racchiuse nella memoria assieme a quel vago profumo di speranze, desideri accennati e sogni sorridenti che in un attimo riprendono vita.

    Dalla finestra, alla luce di quest'ultimo giorno, mi appare il meleto e oltre la forra il lago, tracciato da quella lunga striscia di orizzonte azzurro ed d'infinito che m'innamorava.
    Tornano le travolgenti memorie perdute negli anni bruciati della mia passata gioventù per seguire un'immagine di vita che mi ha tradita...

    Ora son qui, nella tua stanza mamma. Vedessi come l'hanno ridotta tutte quelle granate, ho difficoltà a respirare, l'emozione mi soffoca.
    L'antica regina e la principessa luminosa sono ancora insieme tenendosi per mano, affacciate alla finestra di questa casa semplice, vuota e silenziosa.

    Il rombo degli aerei si fa man mano più pesante, il cielo è solcato dai traccianti della risposta contraerea in un susseguirsi di esplosioni che mi terrorizzano!

    Aiutami mamma, ti prego!
    Tu sai cosa vuol dire vivere con quello che ho nel cuore.
    Non ce la faccio più!
    Non negarmi il tuo amore, salva la mia mente, non lasciare che si spenga senza il tuo perdono!
    Mio Dio, se mi negassi il tuo amore dovrei dire addio a tutti i colori di questa nostra adorata terra, al nostro focolare ardente di ricordi, a tutte le persone buone, al seme da cui sboccerà un fiore, a tutti i miei ragazzi che non rivedrò più...e non so come potrei dire addio a te madre mia. Se mi lasci fuori del tuo cuore non saprei più dove riposare il capo e morirei sola!

    Scossa da singhiozzi scivolo in ginocchio tra le macerie della stanza, raccolgo il volto tra le mani in un silenzioso e lungo pianto, come quando ti sentivo in una percezione silenziosa e mi giravo mentre passavi per non sfiorarti.

    Ogni conversazione tra di noi era inutile, niente sorrisi accennati, lettere che mi servivano soltanto per dirti addio.
    Dove sei mia gioventù? Quando procedevo senza incanto ed ero sempre silenziosa.
    Ero testarda solo per farti rabbia, prendevo solo quel che mi piaceva.
    Ero diversa e uguale a te. Diversa da ogni persona, ribelle e affamata di tutto quello che nascondeva la vita.
    Guarda!?...In questo inferno un usignolo si è posato sul davanzale della finestra.
    Oh mio Dio! Lui si ricorda di me? Riconosce la mia tristezza ma continua a cantare, libero di appoggiarsi al vento che ingarbuglia ogni mia consapevolezza. Non riesco più a comprendere il suo canto ma con la zampetta si gratta il capo...allora sorrido e piango rammentando quel tuo gesto.
    Grazie mamma, ora sono certa di essermi ritrovata. Soltanto così potevi dirmi: bentornata a casa Lucia!

    Sono tornata a te mamma! Non voglio più dirti addio, fa troppo male...non voglio più soffrire...

  3. .
  4. .



    A proposito della casa nel Vermont, c’è da riferire che avendo nelle vene sangue toscano, quindi fumino, avevo scelto di vivere la mia vita al di fuori degli interessi della comunità statunitense facendomi non pochi nemici.

    Sono nato in un piccolo paesino a due passi da Lucca, "Ripafratta" e a tre passi da una collina che mi ha sempre ricordato la mia schiatta… ovvero "Monte Cotrozzi", dove sono cresciuto armato di quella educazione onesta e romantica, ma sempre rigorosa, che tanti anni fa gli uomini di campagna davano ai loro figli, allevando uomini forti nel fisico e nello spirito.

    Seguendo tanti altri connazionali, emigrai negli USA alla ricerca di una possibilità di sopravvivenza, ma considerando che non ero il tipo avvezzo a chiedere favori a nessuno, nei miei primi anni americani dovetti rassegnarmi a svolgere i lavori più umili e a stringere la cintura dei pantaloni.
    Poi, con un po’ di fortuna e tre anni di studio notturno, che mi permisero di parificare gli studi italiani, entrai a far parte del corpo insegnante in una scuola di New York City, dove accumulai notevoli esperienze pedagoteoretiche e psicodidattiche.
    Successivamente mi trasferii a Richmond in Virginia, quindi in Alabama ed infine a Branson, nel Missouri.
    Non trovai mai il tempo per prendere moglie, ma mi rimase il rimpianto di non aver potuto riversare su di un figlio tutto l’amore di uomo sensibile.
    All’età di quarantatre anni, una serie di vicissitudini che mi provarono nel morale e una lunga malattia polmonare, mi costrinsero ad abbandonare tutto ciò che mi era più caro.
    Anche in quella occasione non volli favori, preferendo andarmene alla ricerca di un luogo dove ritrovare la serenità perduta per riprendere a coltivare la voglia di vivere.

    Viaggiai in lungo e in largo per l'America, fin quando trovai ciò che cercavo in una grande e sconosciuta valle, la valle Champlain.
    Per la verità ormai ero stanco di bighellonare e siccome scoprii d’essersi innamorato di quei luoghi, accettai di trasformarmi in contadino pur di non allontanarmene.

    Alcuni anni più tardi, ormai completamente integrato, investii i miei risparmi acquistando una piccola fattoria a trenta miglia da una piccola città rurale e a due passi dalla Green Mountains National Forest, dove, godendo di un'aria pura e fresca che ritemprò il mio fisico, riacquistai lentamente la serenità perduta.

    Quella divenne la mia casa, la casa che per anni avevo sognato per me e per la mia famiglia.

    In quegli anni, ormai avevo superato i cinquantacinque anni, intuendo che da solo non ce l'avrei mai fatta, presi in moglie la vedova Amelia Dewey, una maestra elementare non più giovanissima con la quale condividevo l'amore per la terra, la natura e la lettura.
    L'anno successivo, mentre passeggiavamo lungo il nostro vigneto che rasentava un piccolo lago naturale, rinvenimmo il corpo abbandonato di una bambina di otto o forse nove anni, ormai più morta che viva per le bastonature ricevute e per metà immersa nell'acqua.
    La prendemmo su e la portammo nella nostra casa, certi ormai che non ce l'avrebbe fatta e fu soprattutto merito di Amelia se riuscì a trovare la forza di riaccendere l'ultimo barlume di vita che gli avevano lasciato. Infatti, abbandonando ogni altra attività trascorse giorni e notti interi al suo capezzale, regalandole spunti di incredibile amore, parlandole e tenendo il suo corpicino a contatto con il suo per donarle il suo calore, curando le terribili ferite del corpo e della mente… e infine, dopo alcuni mesi, quella incredibile donna la rimise in piedi.

    Non avevo mai assistito a un miracolo e dovetti ricredermi sulle enormi capacità dell'amore.

    Una volta ripresasi, la bambina ci raccontò di essere stata rapita e poi fuggita da una comunità di nomadi, ma di non sapere né chi fosse né dove vivesse la sua famiglia.

    Da quel momento fu difficile distaccarla dalle gonne di Amelia, lasciai a loro il letto matrimoniale ritirandomi nella stanza degli ospiti, ma durò poco, poiché in poco meno di un mese la bambina volle che tornassi in quel lettone, fin quando non decise lr stessa di trasferirsi nella stanza degli ospiti.

    A quel punto, non volendola abbandonare facemmo delle ricerche che si rivelarono tutte infruttuose e alla fine, d’accordo con le autorità, decidemmo di sospenderle e di tenere la bambina con noi per ridarle pian piano i suoi processi cognitivi su percezioni, memoria e recupero emozionale.

    Le demmo un nome… Sara, ma fu la bambina stessa che lo scelse e da quel momento, quell’insieme di pietre, calce, legno e calore umano, avvolse la bambina a tal punto da meritare una breve descrizione.

    Quando acquistai quella proprietà, scoprii che aveva un nome; “New Land’s” e sebbene all’epoca quel nome era ormai caduto in disuso, voglio riportarlo per dovere di cronaca.

    La casa, la cui architettura si rifaceva vagamente al primo stile Vittoriano, era stata edificata interamente in pietra e a buon diritto poteva vantarsi d’essere tra le più grandi e solide case della contea.
    In epoche precedenti l’esterno era stato rivestito di larghe doghe di legno curiosamente verniciate di un bel colore rosso cupo e in contrapposizione a quella tinta così viva, tutti gli infissi erano stati dipinti di bianco e contornati da una larga banda dello stesso colore.

    Quelle tinte sono decisamente comuni in quella parte di America, ma se qualcuno fosse tentato di credere che l’accostamento di due colori così decisi e carichi di significato, potessero aver conferito alla casa un aspetto bizzarro si sbaglia di grosso, poiché non soltanto riuscivano a collocare armoniosamente la severa linea architettonica della casa nella natura che la circondava e ispirare sentimenti così profondi da turbare l’animo di chiunque si trovasse a passare da quelle parti.

    Inoltre, se si aveva la fortuna di ammirarla in autunno, quando sembrava divenire un tutt’uno con i purpurei e grandi aceri che la circondavano, o in primavera, nel verde che dominava la scena, si aveva l’immediata impressione d’essere penetrati in uno spazio in cui il bello era la normalità e il normale era un insolito sentimento d’amore.

    Alla casa si accedeva attraversando un piccolo orto racchiuso da una bassa staccionata, sul fondo del quale alcuni gradini in pietra scura immettevano su di un'ampia veranda sulla quale si aprivano due porte.

    Dalla porta di sinistra (la più piccina) si aveva accesso in un’ampia cucina, mentre la più grande immetteva in una vasta sala al cui centro signoreggiava un imponente tavolo di legno grezzo.

    Sembra impossibile, ma in chiunque varcasse quella soglia, quella stanza suscitava sentimenti d’incredulità e stupore e non tanto per una strana luminosità che sembrava scaturire dalle pareti su cui erano appesi dipinti, ma per la grande scala che conduceva al piano superiore e che sembrava essere l’esatta copia di quella che ancora oggi può essere ammirata nella cappella delle suore di Loreto di Santa Fe ed è chiamata la scala per il paradiso.

    Infine, sull’angolo più lontano, due poltroncine fronteggiavano un sontuoso camino in pietra scura.

    Il piano terreno era completato da un secondo locale utilizzato come dispensa e da una terza stanza, attigua alla parete del camino, nella quale erano stati collocati i servizi e una grande vasca di legno.

    Al piano superiore, su di un vano squadrato, vi erano alloggiate tre stanze da letto, delle quali una disposta sul lato destro (riservata agli ospiti) e due sul lato sinistro. Sulla parete di fondo, ovvero quella che divideva la struttura abitativa dal granaio (Utilizzato come fienile e rimessa per un trattore, un carro a quattro ruote e un vecchio furgone) era ancora visibile l’arco di una porta, ormai sbarrata, che in passato doveva aver permesso l’accesso al corpo posteriore della casa.
    Inoltre, sullo stesso vano, utilizzando una scala retrattile, ma così ben nascosta da doverne conoscere l’esistenza per poterla utilizzare, si poteva accedere ad un ampio sotto tetto.

    Sul retro della casa vi era l’altra struttura il cui piano terra era utilizzato come stalla per i tre cavalli, dieci mucche da latte, alcuni vitelli, tacchini, galline e conigli, mentre il piano superiore, sebbene vi fossero state ricavate alcune stanze, era inutilizzato a causa di quella porta sbarrata al primo piano della struttura abitativa.

    Il resto della proprietà comprendeva, al di qua e al di là di una piccola collina che fronteggiava la casa, una decina di acri di buona terra in gran parte dissodata e coltivata.)

    Incredibilmente la bambina s'integrò talmente bene che una volta rimessasi definitivamente, iniziò ad arrampicarsi sulla collina, dove se ne restava, dopo aver svolto i suoi compiti in casa, ore intere.

    In breve tempo entrò con pieno diritto a far parte della nuova famiglia chiamando me "papà" e Amelia "mamma Amelia", ma quando scoprì che ero nato a due passi da Lucca e a tre passi da "monte Cotrozzi" volle sapere ogni cosa riguardasse quel luogo che aveva il mio cognome, arrivando a farmi giurare che prima o poi sarei tornato in Italia per condurla a visitare quel luogo che una fantasia popolare racconta fosse il luogo dove era scesa, dal cielo, un'antica razza umana.

    Quel 16 Aprile, pur essendo nato del tutto simile ai giorni che lo avevano preceduto, rimase scolpito nella memoria di Sara come un faro.

    La giornata era iniziata come il solito; io nei campi e lei, dividendosi i compiti con "mamma Amelia", prese a gironzolare per la stalla, la legnaia, pulizie in casa, riordinare le stanze e tutto il resto. Poi, sul tardi della mattinata, dopo aver condotto le mucche nel recinto per il pascolo e rifornito d’acqua il serbatoio, salì al piano superiore per tinteggiare quella parte del soffitto imbrattata da un'infiltrazione d’acqua piovana.

    Iniziò le grandi manovre preparando pennelli e il tino con la tinta che già da qualche tempo, avevo acquistato in città. Poi, con buoni propositi e qualche sforzo supplementare, trascinò fin lassù la scala a compasso, ma quando ebbe tutto a portata di mano ed era già sulla scala, pronta al primo colpo di pennello, notò, sull’angolo più buio del soffitto il pannello che nascondeva alla vista la scala per accedere nel locale sotto il tetto.

    A prima vista le parve fosse un pannello applicato per sostituire una parte danneggiata del soffitto, ma quando si accostò per osservarlo meglio, con sorpresa scoprì una nicchia ricavata nel legno di una delle sue estremità.
    Di lì ed infilare due dita in quella nicchia e tirare a se fu questione di due secondi, esattamente quanti gliene occorsero per volare sul pavimento quando, aprendosi con uno scatto, quel pannello la spinse giù dalla scala.
    Era ancora seduta sul pavimento a massaggiarsi il fondo schiena, pronta a spararne quattro delle sue, quando rimase letteralmente a bocca spalancata a osservare una minuscola scala discendere lentamente verso di lei.

    Inutile dire che dimenticò pennelli e tinta per arrampicarsi su quella scala, arrestandosi soltanto quando, introdotta la testa in un ambiente in penombra, ma impregnato di profumi per lei assolutamente sconosciuti, se ne uscì con una delle sue esclamazioni
    – Porca miseria e questo cos’è! – E ancor prima che i suoi occhi riuscissero ad abituarsi a una lieve luminosità che filtrava da una piccola finestra circolare, si arrampicò fin dentro godendo di quei profumi ad occhi chiusi.
    Quando li riaprì e si trovò circondata da una quantità inverosimile di oggetti d’ogni genere, fu colta da una lieve vertigine.
    – Mio Dio… ma questo è il paradiso? – Mormorò un istante prima che la sua curiosità si scatenasse aprendo e chiudendo casse, cassettoni, bauli e armadi osservandone attentamente il contenuto e riempiendo l’aria di esclamazioni.

    In poco meno di un’ora riuscì a mettere le mani dappertutto, ma quando raggiunse la zona più in ombra, restò ammutolita di fronte ad uno scaffale colmo di libri.

    Le notizie in suo possesso le confermarono che i proprietari di quelle case si dotavano sempre di librerie, ma mai avrebbe immaginato che prendere tra le mani quei volumi avessero potuto procurarle lo stesso imbarazzo di quando strinse per la prima volta tra le mani i grossi capezzoli delle mammelle di una mucca.

    Lentamente aprì il volume e mentre con mani tremanti iniziò a sfogliarlo, un profumo nuovo pervase l’aria.
    Portò il libro al volto e annusandolo avidamente sussurrò.
    – È buono porca miseria!

    Quando finalmente quella specie di ubriacatura si placò e sedette sul pavimento accanto alla finestra, iniziando i suoi primi tentativi di lettura, il tempo parve arrestarsi.
    Con una cocciutaggine davvero monumentale provò a decifrare alcune di quelle pagine, ma quando sollevò gli occhi dalla scrittura, per dare un significato a ciò che aveva appena visto, si arrabbiò alla sua maniera scoprendo di non aver compreso assolutamente nulla.

    Anche in quella occasione fu il suo orgoglio a non permetterle di rinunciare.
    E se quell’ostica esperienza terminò con il definitivo innamoramento per la lettura, il merito va in gran parte attribuito alla pazienza e all'amore di "mamma Amelia", poiché riuscì a riportare alla sua memoria le ormai lontane nozioni di lettura.

    C’è da dire inoltre che nei primi giorni di quella nuova esperienza, si trovò spesso a dover risolvere un problemino niente affatto divertente; ovvero come riuscire a seguire la scrittura, senza perdersi in fastidiosissimi salti di riga… e conoscendola, non è difficile immaginare quali possano essere state le sue reazioni.
    Ad ogni modo anche quella volta le venne in soccorso "mamma Amelia" che le insegnò a servirsi della guida dell’occhio, adottando una tecnica sicuramente poco elegante, ma certamente valida… il dito indice come pilota.
    E così, avendo iniziato a leggere, finì per trascorrere molto del suo tempo libero sulla collina portandosi dietro sempre qualche libro.
    Tra quei volumi trovò davvero di tutto. Inoltre, su di un ripiano isolato, rinvenne due volumi; la Bibbia e il Corano.

    Ovviamente la scoperta di quella stanza finì per crearle l’ennesimo problema del tipo; “È corretto invadere un universo che non mi appartiene?”

    A risolvere il quesito le venne in soccorso la solita onnipresente "mamma Amelia", ricordandole quella frase che avevo sempre detto e ripetuto nei primissimi giorni della sua vita in quella casa, “Qui non ci sono padroni, quello che è mio è anche tuo e di Amelia.”

    Alcuni di quei libri le dettero risposte alle molte domande che per varie ragioni aveva sempre evitato di porsi, il significato di “ before christ”, ma la cosa straordinaria fu che, pur comprendendo che molte di quelle letture avrebbero potuto influenzare la sua natura, lasciò che ciò accadesse.

    Ormai non era più l’essere arrogante e refrattario che avevamo raccolto, ma giorno dopo giorno si dotava di una singolare sensibilità che a volte le procurava scomodi inconvenienti, come quando "mamma Amelia" la coccolava o quando la sera, seduta sul pavimento accanto al camino, leggendo qualche pagina, le accadeva d’essere sopraffatta dalla commozione.

    Allora, per difendersi dalla sofferenza, piangeva silenziosamente serrando forte gli occhi, per escludere il chiaro della luna e la notte silenziosa… e allora toccava a me prenderla tra le braccia per depositarla delicatamente nel suo letto.

    Quella mattina fu il sole a svegliarla da un sonno profondo. Si vestì in fretta e senza fare colazione uscì in giardino sperando di raggiungermi prima che mi recassi nei campi, ma non vedendomi stava per rientrare in casa quando udì dei rumori provenire dalla rimessa.
    Mi trovò che stavo trafficando con il carro
    – Se mi dai dieci minuti, ti preparo qualcosa per il pranzo – Disse lei dopo aver fatto lentamente il giro del carro.
    – Non ce n’è bisogno, ci ha già pensato Amelia – Risposi.
    – Scusami, ma stamani non sono riuscita a svegliarmi. È da molto che sei in piedi?
    – Un paio d’ore
    – E come mai sei ancora qui?
    Alzai le spalle senza rispondere.
    – Lo so io perché – Borbottò lei sorridendo.
    – Non ti affannare " Birbone " - Disse lei sorridendo.
    – Perché non lo fai sapere anche a me? – Chiesi
    – Perché non puoi iniziare la giornata senza il mio bacio.
    Scossi il capo borbottando qualcosa di assolutamente incomprensibile.
    – Hai qualcosa da portare nei campi? – Chiese ancora lei dopo avermi schioccato un bacio sulle fronte
    – Cosa te lo fa pensare?
    – Dovrà pur servirti a qualcosa quel carro, no? – Continuò lei per nulla scoraggiata
    – Un carro serve anche per andare in città.
    – Mi domando perché non prendi il furgone? Faresti prima e ti stancheresti meno
    – Forse sarò un testone, ma quegli aggeggi non mi piacciono. Inquinano l’aria – Risposi senza voltarmi

    Lei si accostò alle mie spalle tirandomi la camicia – Non sei un birbone, sei il mio padre birbone... Mi restituisci il bacio?
    Brontolai qualcosa mentre lei si piegò offrendo il suo volto che fui felice di baciare.

    Quella sera le due donne uscirono da casa assieme venendomi incontro e appena le raggiunsi diedi il solito bacio ad Amelia e strinsi tra le braccia Sara che vi si accoccolò.
    – Papà raccontaci una storia
    Guardai Amelia e notando il suo sorriso e un lievissimo cenno affermativo, iniziai a raccontare…

    – “In quel lontano paese situato proprio nel punto dove il cielo e la Terra si sfiorano, viveva un uomo semplice di cuore e di modeste condizioni. Era rimasto vedovo molto presto e quella disgrazia l’aveva costretto a crescere una figlia dovendole fare da padre e da madre.
    Non fu un compito agevole, ma mettendo in campo tutto il suo coraggio e un infinito amore, seppe fondere in se così magistralmente quei due doveri che tra lui e la sua bambina sbocciò un vincolo assolutamente indescrivibile, una sorta di legame sentimentale che li unì oltre ogni umana comprensione.
    Abitavano una graziosa casupola ai margini di un bosco vivendo del duro lavoro dei campi e allevando animali.
    Non avevano molto, ma erano sempre pronti ad aiutare chiunque fosse stato in difficoltà. E questo fece della loro casa l’approdo per chi, meno fortunato, domandasse un aiuto.
    Il buon uomo visse tutti i suoi anni nella consapevolezza di non essere perfetto e quando gli fu chiesto di lasciare questa vita per salire in cielo, egli salutò la sua bambina e accettò serenamente la morte.
    Informato del suo prossimo arrivo, ed essendo stato messo al corrente che la vita terrena del brav’uomo occupava assai più pagine di quante non ne occupassero quelle di uomini più illustri...”

    – Com’è possibile conoscere la storia di una persona? – Chiese lei interrompendo il racconto
    – Perché è scritta in un grosso volume. Posso andare avanti?
    – Certo, scusami

    – “...Dio volle inviare sulla Terra due dei suoi migliori angeli con l’incarico di raccoglierne l’anima e accompagnarla tra i beati... tutti sanno che in cielo non si ha bisogno di nulla e che una volta nella casa di Dio nessuna delle passioni umane può più gravare lo spirito, ma sebbene fossero trascorsi alcuni giorni dal suo ingresso in paradiso, il pover’uomo sentiva di non essere capace di abbandonare alcune di quelle esigenze che erano state parte della sua veste umana e questo, a dir la verità, gli procurava una profonda tristezza.
    Per un po’ nessuno si accorse di quanto accadeva al pover’uomo, ma un giorno, andando a far visita ai suoi ospiti, com’era solito fare, Dio notò sulle guance dell’uomo due lucenti lacrime che scivolavano pigre, pigre.
    Fu talmente sorpreso che non poté fare a meno di chiederne il motivo.
    – Perché quelle lacrime? Non c’è ragione d’esser tristi nella mia casa
    Dispiaciuto d’essersi fatto sorprendere in lacrime, l’uomo si asciugò in fretta e in furia gli occhi
    – Hai ragione, – Rispose cercando un sorriso che proprio non voleva saperne d’ingentilire le sue labbra – ma cosa posso farci se sono rimasto un pover’uomo sciocco
    – Ti conosco, so bene che non lo sei – Rispose Dio pregandolo di sedersi – Credo invece che tu abbia qualcosa da dirmi che valga la pena d’essere ascoltato
    – Non è assolutamente nulla d’importante
    – Non ti andrebbe di parlarne?
    – Come posso permettere che perdiate il vostro tempo con i miei problemi
    – Cos’altro credi abbia da fare un Dio se non risolvere i problemi dei suoi figli? – Rispose Lui sedendogli accanto
    – È che... ecco... non sono stato capace di abbandonare tutti i miei ricordi di uomo
    – A volte accade, ma se avrai pazienza vedrai che le cose si metteranno a posto da sole. Posso chiederti quali sono i ricordi che ti disturbano?
    – Oh no Signore, non mi disturbano affatto, mi rendono soltanto una gran pena
    – Capisco, ed è un ricordo importante?
    – È la cosa che ho più amato e che ho dovuto lasciare sulla Terra
    – Ma cosa avrai mai lasciato di così importante da farti piangere? Forse le tue ricchezze?
    – Oh no! Non sono mai stato un uomo ricco
    – La tua potenza?
    – È una parola di cui non conosco il senso
    – La gloria?
    – La gloria e vivere nella tua casa
    – Non ti andrebbe di dirmi cosa hai mai lasciato sulla Terra? – Chiese Dio sempre più incuriosito
    – L’amore della mia bambina
    – Ah si, capisco, conosco bene la tua bambina
    – Era tutta la mia vita
    – È una gran brava ragazza
    – Un amore di bambina con un visetto fresco e profumato come i petali di un fiore. Era la mia più grande gioia terrena, ed io l’adoravo
    – Non è più una bambina, ora ha un marito ed è in attesa di un figlio
    – Che gioia saperlo, ora la mia mancanza non la rattristerà
    – Non è esatto, tua figlia ti ama ancora dello stesso sentimento di quando eri tu ad occuparti di lei. Tu sei ancora nei suoi pensieri e se può farti piacere saperlo la sera canta ancora per te
    – Tu mi ridoni la pace. Sapessi Signore... quand’era una bambina mi amava di un amore così grande che se qualche contrarietà mi affliggeva lei mi confortava con le sue canzoni. La sua voce cristallina era per me la migliore delle medicine... era l’unica capace di rendermi un uomo felice
    – Ed ora non sei più felice?
    – Lo sono, ma sento un gran vuoto dentro di me
    – Capisco – Replicò Dio annuendo – e magari starai pensando che non avrei dovuto chiamarti nella mia casa
    – No! È giusto così, ma cosa posso farci se sono soltanto un pover’uomo, sapessi quant’è difficile dimenticare... era la mia bambina e un padre non dovrebbe mai abbandonare i suoi figli
    – Uhm, ho l’impressione che tu desideri che io faccia qualcosa per te, non è così?
    – Sono sicuro che sarebbe una cosa da nulla
    – Beh, sentiamola questa cosa da nulla
    – Ecco...
    – Avanti, – Lo incoraggiò Dio – ti ascolto
    – Se soltanto potessi ascoltare ancora la sua voce e magari riabbracciarla per un solo piccolissimo attimo
    – Ti rendi conto di cosa mi hai chiesto?
    – Credi sia impossibile?
    – Per fare quanto mi hai chiesto dovrei sovvertire ogni regola universale
    – E questo immagino non sia possibile
    – Beh, non è esatto, si potrebbe, ma sarebbe un bel da farsi
    – Allora è meglio che tu dimentichi la mia preghiera
    – Mi metti in imbarazzo... e se trovassi la maniera di far venire tua figlia nella mia casa?
    – Oh no! No, non sarebbe giusto, lei è così giovane, ha ancora da vivere tutti i suoi anni e poi ora aspetta un figlio... no Signore lasciala alla sua famiglia
    – Allora non resta altro da fare che mutare ogni regola universale
    – No Signore, non posso chiederti una simile cosa
    – Non vuoi più ascoltare la tua bambina?
    – Oh Signore, lo desidero con tutte le mie forze, ma non è giusto che per un mio capriccio tu debba sconvolgere l’universo
    – E se trovassi un’altra soluzione? Sarebbe una specie di accomodamento, ma potrebbe andare
    – Sarebbe magnifico
    – Potrei aprire le porte del cielo in modo che si possa ascoltare la sua voce
    – Credi sia una cosa possibile?
    – Mah! Cosa debbo dirti, non s’è mai fatto e non so neppure se sarà possibile entrare nei suoi sogni, la Terra è assai lontana
    – Allora cos’altro si può fare?
    – Dovresti avvicinarti alla Terra, ma questo non è prudente, comporta qualche rischio
    – Che genere di rischio?
    – Potresti esserne attratto e se ciò dovesse accadere potresti perdere il paradiso
    – Certo sarebbe un bel guaio, io desidero rimanere nella tua casa
    – Non dovrei essere io a dirtelo, ma so che qui in paradiso c’è qualcuno che conosce il modo per avvicinarsi alla Terra senza correre troppi rischi
    – Chi? – Chiese il buon uomo
    Dio scosse la testa, si alzò e prima di avviarsi borbottò – Dovrai cercarlo amico mio, a me non resta che augurarti buona fortuna e ricordarti che il momento in cui verranno aperte le porte del cielo sarà di notte e tu dovrai essere di ritorno prima che faccia giorno
    Detto ciò Dio riprese il suo cammino.
    Trascorse un’ora, un’altra ancora e quando il buon uomo ne perse il conto si rivolse ad un suo vicino intento a raccogliere fragole chiedendo – Quando farà buio?
    L’uomo interruppe il suo lavoro sollevando il capo per guardarlo
    – In cielo non fa mai buio, – Rispose guardandolo serio – ora il nostro tempo segue cicli assai diversi da quelli ai quali eravamo abituati sulla Terra
    – Allora non si apriranno mai le porte del cielo?
    – L’unica cosa che posso dirti è che scendendo verso il fondo di quella valle è possibile vedere tramontare il sole
    – Cosa c’è laggiù?
    – Lo chiamano purgatorio. Io non ci sono mai stato, ma ho sentito dire che vi sono le anime di coloro che sono in attesa di salire in paradiso
    – Credi sia prudente scendervi?
    – Qualcuno è tornato
    – Allora è meglio che mi avvii prima che si aprano le porte del cielo
    – Se vuoi un consiglio cerca di essere al coperto quando si apriranno le porte o rischierai di cadere sulla Terra.
    – Puoi suggerirmi un modo per evitarlo?
    – So che in fondo alla valle vi sono delle grotte, scegline una e aspetta che faccia buio, ma mi raccomando, non uscire per nessuna ragione fin tanto che non saranno richiuse le porte, hai capito bene?
    – Farò come tu dici
    – Un’altra cosa, se dovessi sentire il desiderio di avvicinarti ancora di più, cerca di resistere, quelle grotte sono la parte più bassa del cielo e in qualche modo sono influenzate dal tempo della Terra
    – Cosa potrebbe accadermi?
    – Potresti non trovare più la strada per tornare in paradiso
    – Ho capito, vedrò di seguire i tuoi consigli
    – Toglimi una curiosità, ma perché vuoi rischiare il paradiso per ascoltare una canzone?
    – Non è per una canzone, è per ascoltare la voce di mia figlia
    – Allora buona fortuna amico mio, ne avrai bisogno

    Il brav’uomo si avviò lungo un viottolo che scendeva verso il basso e dopo un viaggio piuttosto avventuroso si trovò dinanzi la prima delle grotte sull’ingresso della quale era seduta una donna
    – Cosa ti porta quaggiù? – Chiese lei
    – Vorrei ascoltare la voce della mia bambina
    – Vive sulla Terra?
    – Si
    – Allora dovrai scendere ancora. Di qui non udrai nulla
    Qualche ora più tardi raggiunse la seconda grotta
    – C’è nessuno? – Chiese a voce alta
    – Cosa vuoi? – Domandò un’altra donna affacciandosi
    Per farla breve dovette scendere ancora e ancora e quando ormai la stanchezza stava per vincerlo, di lontano vide una piccola grotta a ridosso di una collina brulla e pietrosa.
    – Speriamo sia la volta buona – Borbottò tra se prima che una voce dietro di se lo facesse trasalire
    – Non avrai intenzione di entrare la dentro? – Chiese un vecchio con una gran barba bianca alle sue spalle
    – Beh, l’intenzione sarebbe quella – Di dove vieni? – Chiese ancora il vecchio
    – Di lassù
    – Avresti dovuto restarci, ma perché sei sceso fin quaggiù?
    Il buon uomo raccontò la sua storia e alla fine il vecchio commentò laconicamente
    – Brutto affare amico mio. Sarebbe stato meglio se tu avessi dimenticato
    Il buon uomo finse di non avere udito e chiese – Credi che debba scendere ancora?
    – Se scendi ancora un po’ torni a casa tua e ti assicuro sarebbe la peggiore cosa che tu possa fare. A noi non è permesso disturbare chi ancora vive in quella condizione
    – Quindi non potrò più ascoltare la voce della mia bambina?
    – Cosa vuoi che ti dica, se il capo ha detto che è possibile perché dubitare?
    – È tutto così difficile, nessuno sa dirmi cosa fare
    – Benedetto uomo, devi renderti conto che sei il primo ad aver fatto una simile richiesta, non è mica uno scherzo organizzare un simile spettacolo
    – Hai ragione, devo avergli creato un sacco di problemi
    – A lui? Non pensarlo neppure, il problema è tuo, sei tu che dovrai trovare il modo di arrivare il più vicino possibile alla Terra senza perdere la strada per tornare
    – Credi che se scendessi in quella grotta sarei al sicuro?
    – Sono stato anch’io li dentro e ti assicuro che non è uno scherzo, però è l’unico posto da cui è possibile ascoltare le voci della Terra senza correre troppi pericoli. Certo è talmente angusta che quando sarai in fondo avrai meno pelle di quanto non ne abbia ora
    – Questo non ha importanza
    – Allora non posso che augurarti buona fortuna
    Impiegò alcune ore per trascinarsi fino in fondo della caverna e benché quando vi giunse fosse pieno di dolorosi graffi sanguinanti, la splendida visione dell’universo lo rallegrò.
    – Ora capisco perché Dio non può cambiare le regole, occorrerebbero milioni di secoli per riuscirvi – Si disse mentre provò a sistemarsi in una posizione più comoda. Poi, una volta trovata la meno dolorosa, si mise in attesa armato di tutta la sua pazienza.

    Mai l’attesa gli fu tanto lunga e penosa. Soprattutto perché dovette combattere con un milione di pensieri che gli affollarono la mente, ma quando vide spalancarsi le porte del cielo e Dio, che con un cenno della mano fece cessare ogni rumore e ogni suono nell’universo intero, seppe di avere tutto il suo amore.
    Era ancora stordito da tanta grandezza quando una debole melodia colmò il silenzio che lo circondava e mentre quelle note acquistavano vigore, giunse la calda e melodiosa voce della sua bambina.

    In un attimo rivisse tutta la sua vita e i dolcissimi momenti trascorsi al suo fianco e fu allora che pianse le sue ultime calde lacrime d’uomo.
    Poi, quando sulla Terra scese la notte e le figlie degli uomini che erano in cielo caddero nel sonno, un prodigio s’impossessò dei loro spiriti incidendovi la tenera e struggente emozione di un lunghissimo abbraccio che rimase nei loro cuori per il resto della vita.”

    Quando terminai di raccontare, lei chiese con un filo di voce
    – Perché hai scelto questa storia?
    – Non lo so, è una storia come tante altre
    – Perché papà? – Insistette lei





    Dal mio diario - Seconda parte


    Amelia si accostò e salendo sulla veranda mi tolse dalle braccia la bambina e dopo averle sorriso borbottò
    – Forse perché voleva dirti che quando si ama e si ama con la mente e con il cuore, non esiste alcuna legge, si ama e basta!

    La bambina prese tra le sue una delle mani di "mamma Amelia" e la strinse forte mentre sentì nel petto qualcosa che saliva e le toglieva il respiro.
    Durò soltanto un attimo, poi tirò su col naso e si sentì più leggera.
    – È bello stare con voi. – Sussurrò con un filo di voce – Mi fate sentire importante

    Amelia borbottò un frettoloso…
    – Si è fatto tardi, dovremmo aver già cenato e tu essere a letto

    Quella notte Sara sognò "monte Cotrozzi". Quel grumo di terra verde somigliava al suo papà e a "mamma Amelia" e lei vi si arrampicava gridando i nostri nomi.
    Quella collina era la sua famiglia e lei non avrebbe permesso a nessuno di salirvi.
    Quella collina erano i suoi due grandi amori e loro erano cosa sua…

    Il tempo trascorse senza accorgercene. Sara riacquistò tutta la sua vitalità e fece di noi due esseri felici di averla come figlia.

    Una mattina di qualche tempo dopo Sara uscì presto ma sull'aia trovò me ad aspettarla.
    – Come mai sei ancora quì? – Mi chiese
    – Hai voglia di venire con me?
    – Certo! Dove si va?
    – Sulla collina…
    – Con te vengo anche in capo al mondo

    Annuendo mi avviai lungo il sentiero che aggirando il meleto raggiungeva la collina e lei mi seguì aggrappandosi alla mia mano.

    Percorremmo quel tratto di terreno senza che nessuno dei due pronunciasse una sola parola, ed, io, che non mi stancavo di stringere e carezzare la piccola mano, non staccai un solo attimo gli occhi da quel volto sul quale l'unica traccia del dramma subito poteva essere letta nell'inconoscibile profondità dei suoi occhi, che sebbene fossero tornati a risplendere di luce vivissima, lasciavano trasparire l'immagine di una prova che l'aveva indelebilmente segnata.
    Raggiunta la sommità della collina mi lasciai scivolare seduto ai piedi della quercia
    – Siediti – Dissi masticando la pipa
    – Ancora un attimo, – Rispose lei – lascia che goda della vista della mia amica quercia

    In quei primi giorni di Settembre il grande albero iniziava ad assumere il suo bel rosso regale e lei, seguendo un rituale che si rinnovava ogni volta che si trovava al cospetto della grande pianta, memorizzò l'incisione a fuoco della tavola affissa al fusto.

    QUERCIUS RUBRA L.
    QUIVI INTERRATA DA
    ISAAC L. PADGETT
    4 luglio a.d. 1901

    Per alcuni minuti parve che nessuno di noi avesse voglia d'infrangere il silenzio che ci circondava.
    Io mi ero perso in una delle nuvole azzurre che soffiavo verso l'alto, mentre lei, in piedi con la schiena poggiata al fusto della pianta, lasciava che il suo sguardo scivolasse sul meleto sottostante.
    – Vuoi una mela? – Chiesi porgendogliela
    Sara prese la mela continuando a far vagare lo sguardo fino agli alberi che circondavano la casa, poi, improvvisamente, emise un rumoroso
    – Oooh si!
    – Qualcosa non va? – Chiesi voltandomi a guardarla
    – Cosa? Oh no, va tutto bene, sono felice
    – Qualche motivo particolare?
    – La tua casa, Dio che bella!
    – Quella è anche la tua casa – Soggiunsi

    Lei annuì addentando la mela
    – Si, la nostra casa è grande e bella
    – Non è importante che una casa sia bella o molto grande, ciò che conta è che sappia essere una vera casa – Borbottai
    – La nostra lo è. Lei è stata mia madre e mio padre, mi ha protetta quando ne avevo bisogno
    – Non farti sentire da Amelia, non lo apprezzerebbe
    – Qual è il segreto per essere una buona casa?
    – È difficile stabilire una regola che possa essere valida per tutti, generalmente è la nostra sensibilità e quanto possediamo nel cuore a darle un valore. Per alcuni possono essere emozioni così travolgenti da identificarla con la madre... mentre per altri può essere difficile perfino coglierne le virtù più semplici
    – Io credo che ne serberò il ricordo in eterno...
    – Non dirmi che siamo già alle lacrime – Commentai con un velato senso d'ironia nella voce
    – Tu non cambierai mai, vero? – Borbottò lei alla svelta asciugandosi gli occhi con le mani
    Me la risi tentando un difficile recupero
    – Perché l'hai edificata così grande? Avevi intenzione di avere una grande famiglia?
    – No, qui ti sbagli... quella casa non è opera mia, non ne sarei stato capace. Fu Isaac a tirarla su
    – Com'era?
    – Chi? Lui?... Beh... era brutto da far spavento
    – Come te? – Soggiunse lei sorridendo
    – Oh no! Molto peggio
    – Era nato in questa valle?
    – No, si trasferì da queste parti all'inizio del secolo
    – Veniva dal sud?
    – Dall'Inghilterra
    – Non amava la sua terra?
    – L'amava come pochi, ma fu costretto ad abbandonarla per dare una possibilità in più alla sua famiglia. Non conosco tutti i motivi che lo spinsero in questa valle, ma lui raccontava che dalle sue parti il terreno era acido e che per fare il contadino bisognava sputare sangue
    – Non credo possa essere un buon motivo per lasciare la propria terra
    – Forse no, ma quando si ha una moglie e tre figli da sfamare, a volte si debbono fare scelte dolorose
    – Com'era questa valle all'inizio del secolo? Te l'ha mai descritta?
    – No, ma non doveva essere molto diversa da quella che vediamo oggi. Beh, certo non c'erano i trattori e l'elettricità, ma in compenso la terra era a buon mercato. Acquistò questo fondo con due soldi e impiegò quindici anni per edificare quella casa
    – Quindici anni per costruire una casa?
    – Un po' troppi è vero, ma guarda cos'è riuscito a fare. In tutta la valle non ve ne sono di altrettanto belle e solide
    – La tirò su da solo?
    – Quando arrivò da queste parti i suoi figli erano ancora troppo piccini per aiutarlo, ma con l'aiuto della moglie riuscì a tirarne su una di calce e tronchi d'albero. Poi, quando i ragazzi furono in grado di dar loro una mano e con un po' di aiuto esterno, pietra su pietra finirono per renderla così com'è ora. La stalla e la parte superiore venne più tardi. Nei suoi progetti sarebbe dovuta servire ai figli e alle loro famiglie
    – Una buona idea per non separarsi da loro... ma perché ora quella parte è chiusa? Non credi sia giusto riaprirla?
    – Abbiamo già una stanza in più, cosa potremmo farcene delle altre?
    – Oh papà, quelle stanze sono costate fatica, non è giusto lasciarle abbandonate, devono sentirsi amate
    – Si, però tu avreste qualche stanza in più da tenere in ordine
    – E tu credi che la cosa possa spaventarci? Io e "mamma Amelia abbiamo spalle robuste
    – Ne sono convinto, però... D'accordo, apriremo quelle porte
    – Sono certa che Isaac ne sarebbe felice
    – Si, immagino di si
    – Piantò anche il meleto?
    – Quel diavolo d'uomo non soltanto piantò il meleto e alcuni degli alberi attorno la casa, ma dissodò i campi e...
    – Piantò questa quercia – Completò lei
    – Come l'hai indovinato?
    – È scritto qui. Quell'uomo doveva amare molto la natura se ha voluto portare fin qui un simile spettacolo
    – Per la verità fu sua moglie a volerla quassù
    – L'avrei fatto anch'io
    – Perché?
    Lei si strinse nelle spalle
    – Forse per dare un po' di belletto a questa collina verde
    – Aveva un coraggio da leone e un cuore grande come la sua casa. Povero Isaac, con lui la sorte non fu generosa, i suoi due figli morirono in Francia nel 1917, sui campi di battaglia e dopo qualche anno la figlia si sposò lasciandolo solo con la moglie. Erano bravi nel loro lavoro, ma dovettero scegliere se rimanere o vendere la proprietà e alla fine scelsero di mandare avanti la fattoria da soli.
    – Come facciamo noi?
    – Pressappoco, ma con un problema in più, l'età. Infatti dopo qualche anno sua moglie si ammalò e nel giorno del suo sessantesimo compleanno lo lasciò
    – Oh mio Dio! Rimase solo
    – Qualche mese più tardi arrivai io da queste parti e lui mi offrì di aiutarlo nel suo lavoro. Avevamo tutti bisogno di aiuto; la fattoria di due braccia in più, lui di compagnia e io di un motivo per ricominciare a vivere. All'inizio ero deciso a rimanere soltanto qualche mese e invece m'innamorai di questa valle, della casa, del lavoro e dell'amicizia che lui seppe offrirmi.
    – Lavorasti per lui?
    – In pratica divenni suo dipendente, ma il rapporto che ci legò fu qualcosa di straordinario. Ci unì un grande rispetto e una profonda stima. Egli m'insegnò tutti i segreti della campagna, ed io, quando la sera si rientrava dai campi, leggevo per lui i classici greci e latini… Cos'hai da scuotere la testa? – Chiesi vedendola ripetere quel gesto
    – Nulla! – Rispose lei sorridendo – Ti prego continua
    – Andammo avanti così fin quando la sua fibra cedette e si ammalò gravemente. Telegrafai a sua figlia e lei venne a prenderlo per condurlo con se in California
    – Allora questa casa è di Isaac?
    – No, prima di partire quel testone mi dette l'ultima prova della sua straordinaria amicizia, volle cedermi legalmente la proprietà ad un prezzo che riuscii a sostenere con i miei risparmi e sai una cosa? Ancora oggi mi chiedo come accidenti poteva sapere quanto denaro possedessi?
    – Sentisti la sua mancanza?
    – Accidenti se la sentii. Per giorni e giorni continuai a parlargli come se fosse stato ancora presente e la sera continuavo a leggere Platone e Omero
    – Venivate mai quassù?
    – A volte si veniva per portare un fiore a sua moglie
    – A sua moglie? – Chiese Sara sorpresa
    – Credo di non avertelo mai detto, ma prima di morire chiese di essere sepolta sotto quest'albero
    – Ecco perché sono sempre in buona compagnia – Rise Sara
    – Ora il suo corpo non c'è più, se la portò via con se
    – I loro spiriti sono ancora qui, lo sento, ma tu cosa venivi a fare quassù?
    – A volte semplicemente per guardarmi attorno, magari mangiando una mela o due. In autunno sono deliziose
    – Perché mi racconti queste cose? – Domandò lei senza guardarmi
    – Forse perché è un bel po' che non parlo della mia vita
    – Mio Dio papà! Continua il tuo racconto, è la tua storia
    – Davvero t'interesso ancora?
    – Oh smettila, vuoi farmi star male?
    – Sai perché scelsi questa valle?
    – Dimmelo!
    – Era già qualche anno che gironzolavo per il mondo e il Vermont era l'ultima tappa di un viaggio che avevo iniziato per fuggire a un'infinità di ricordi
    – Fuggivi dai tuoi ricordi? Oh mio Dio, perché?
    – Non da tutti, ma da quelli più dolorosi... la malattia, l'esonero dal mio lavoro e tutto il resto. Quando giunsi su questa collina era una stupenda sera... il 4 di Agosto se ricordo bene. L'aria era tiepida e c'era una grande pace. Decisi di trascorrervi la notte, ma quando l'indomani aprii gli occhi mi trovai dinanzi Isaac con in mano uno schioppo più grande di lui. Per un po' ci guardammo senza parlare, poi lui dovette accorgersi del disagio che provavo di fronte a quel ferro vecchio e rimettendoselo a tracolla mi chiese se avessi già fatto colazione.
    – Dovevo immaginarlo che c'era di mezzo la mia collina.
    – Sai una cosa? Ho sempre creduto che in questa valle risieda l'anima della Terra.
    – Cosa te lo fa pensare? – Mormorò lei prima di voltarsi a guardarmi.
    – Non lo so, ma tra questi boschi accadono cose incredibilmente belle. A volte mi domando se Dio non l'abbia scelta per compiervi i suoi esperimenti.
    – E magari questa collina è il suo trono – Concluse lei.
    Annuii
    – Potrebbe essere, quassù è tutto così diverso, così pulito. Si ha l'impressione di vivere una dimensione di qualità superiore.
    – Lo senti anche tu?
    – Beh, non so con precisione cosa senta, ma qui sto bene.
    – Oh papà, tu meriti questo privilegio
    – E tu?
    – Io sono una sciocca, ho impiegato troppo tempo per comprendere che questa terra è stata la mia culla. È qui che sono nata e sapessi come l'amo. Ho dato un nome ad ogni filo d'erba, ad ogni pietra. Ogni parte di lei è parte di me. Credimi papà, non esiste nulla di più bello.
    – Oh beh
    – Ne dubiti?
    – No, ti credo
    – Dio ha fatto un buon lavoro quassù
    – Già, – Soggiunsi – e con te ha compiuto il suo capolavoro.
    – Oh smettila! Sai mentire così bene che mi fai rabbia
    – Avrai modo di accorgertene
    – Invece di perdere il tuo tempo in chiacchiere senza senso, perché non mi parli di te. Sai che della tua vita mi hai raccontato pochissimo? Di quel periodo mi hai detto poco o nulla, non so neppure da quanti anni sei nella valle.

    – Fu l'anno del lungo inverno. – Mormorai e nel tentativo di riportare alla mente ricordi lontani mi leccai le labbra sperando di richiamare anche quella sopita sensazione del gusto di mela. – Accidenti se fu lungo e che freddo! Quell'anno venne giù tanta di quella neve che dovetti liberarne di continuo il tetto per evitare che ci crollasse sulla testa...

    Intuendo che non le avrei detto nulla più di quanto già non conoscesse, lasciò che lo sguardo scivolasse fin verso la valle, oltre il meleto, dov'era possibile vedere una parte della casa e le grosse cataste di legna che troneggiavano al sole vivido.

    Le verdi montagne, che già si stagliavano nell'azzurro del cielo, sembravano essersi fatte più leggere e più basse e mentre dal piano saliva il fruscio del torrente e lo stormir di foglie, ravvivata da una brezza odorosa la valle sembrava fremere, come se dopo aver giaciuto priva di sensi per un intera notte, ora, al calore del sole, si riavesse al fervore della vita.
    Improvvisamente la mia voce la sottrasse al sogno e lei, sentendo nascere in se il rimpianto per l'incanto ormai irrimediabilmente interrotto, scivolò in ginocchio volgendo verso di me il volto imbronciato.
    – Qualcosa non va? – Chiesi

    Sara mi fissò con aria confusa e nel riconoscere il mio volto il rimpianto svanì – Sei tu. – Sussurrò – Scusami, ma è così bello godere di quest'incanto che la mente è volata via
    – Perché non ti siedi, ti verrà male alle gambe se resti in quella posizione
    Sara sedette massaggiandosi furiosamente le ginocchia indolenzite.
    – Va tutto bene? – Domandai
    – Ohi ohi! Povere le mie ginocchia, che male
    – Dov'era la tua testolina? – Chiesi
    – Qua e la. Quest'armonia mi ha distratta dal tuo racconto
    – Non hai perduto nulla d'importante
    – Non sei arrabbiato? – Chiese lei sorpresa
    – Dovrei?
    – Si che dovresti! Stavi parlandomi della tua vita
    – Erano soltanto vecchi ricordi
    – Si, ma erano i tuoi ricordi
    – Sai qual è il peggiore difetto dei vecchi? Quello di credere che il mondo sia interessato a ciò che dicono mentre invece non li ascolta nessuno
    – Dai, non farmi sentire colpevole. Ti ascoltavo, ma come al solito eviti sempre di raccontare cose che ti riguardano personalmente
    – Non è vero, ti ho detto molto di me
    – Soltanto quello che desideravi io sapessi
    – E allora? Cosa posso farci se nella mia vita non c'è nulla che valga la pena d'essere raccontato
    – Tu racconta e lascia che sia io a giudicare
    – D'accordo, cosa vorresti conoscere?
    – Ogni cosa che ti riguardi intimamente, com'eri, cosa pensavi e se facevi la corte alle ragazze
    – Beh, – Borbottai facendo l'atto di alzarmi – credo sia ora di tornare giù, abbiamo un'infinità di cose da fare. Ad ogni modo è meglio scendere per controllare il trattore
    – Cos'ha? Non mi dirai che è di nuovo fermo?
    – Beh, in questi ultimi giorni ha fatto qualche capriccio
    – Il trattore, eh? Non sarà una scusa per non parlarmi delle tue avventure con le ragazze?
    – Non essere impertinente! – Reagii borbottando parole incomprensibili e avviandomi verso il sentiero che scendeva sul fianco ripido della collina.
    – Si può sapere perché vuoi scendere da quella parte? – Domandò lei raggiungendomi – Il viottolo è ostruito dal ramo dell'abete. Non dirmi che l'hai tolto
    – No, credo sia ancora li, ma non fa nulla, vedremo di farlo ruzzolare di sotto
    – Non è una buona idea, da quella parte il terreno è umido e c'è poco spazio per quell'operazione. Possiamo farlo domani tirandolo giù dal basso. Dai retta scendiamo di la, è più agevole
    – Si può sapere cos'hai stamani?
    – Cos'hai tu! Non fai altro che borbottare – Ribatté lei
    – Io non borbotto mai
    – Ah no? Allora cos'erano quei versacci?
    – Pensavo
    – Ad alta voce?
    – Oh! Sta a vedere che non posso più pensare come meglio mi garba
    – Anche tu oggi non scherzi, eh?

    Preferii non rispondere, ma quando una decina di metri più in basso il sentiero si restrinse, mi voltai porgendole il braccio
    – Tieniti a me e fai attenzione a dove metti i piedi

    Sara rifiutò sdegnosamente il braccio puntando i talloni nel terreno fangoso.
    – Non pensare a me, – Esclamò risentita – piuttosto stai attento tu. Il terreno è viscido
    – Scusami, volevo soltanto essere gentile
    – Ti ringrazio, ma so cavarmela da sola
    Avevamo appena superato lo sperone di roccia che fummo costretti ad arrestarci a causa del grosso ramo che ostruiva il sentiero.
    – Visto se avevo ragione? – Esclamò lei – Ora dovremo tornare indietro. Sei il solito di testone
    – Qual è il problema? Ora gli affibbio un paio di spinte e vedrai come andrà giù
    – Ma come cavolo pensi di spingerlo? Non vedi che s'è impigliato nella siepe?
    – Ora vedrai
    – Accidenti a tutte le teste dure! Stai attento, non ho alcuna intenzione di raccoglierti giù nel meleto

    Fingendo di non averla udita poggiai la schiena alla roccia per acquistare più stabilità e poi provai a spingere il ramo con un piede, ma fatti tre o quattro inutili tentativi mi volsi verso di lei dondolando il capo.
    – Non va giù questo figlio di un cane – Borbottai
    – Allora cosa si fa? – Chiese lei con un malcelato sorriso sulle labbra
    – Si torna indietro – Rispose lui senza guardarla
    – Fai provare me, è sufficiente districare il ramo dalla siepe per mandarlo giù – Insistette lei sentendo di potersi prendere una rivincita

    Risentito, dal tono beffardo della sua voce, mi chinai nel tentativo di liberare con le mani il ramo, ma prima ancora di rendermene conto, con un guizzo improvviso, un serpente si avventò contro il mio braccio.

    In una frazione di secondo Sara vide il balenio dei denti della serpe e nello stesso istante sentì spingersi all'indietro dal mio corpo, che sotto la violenza dell'attacco ritrassi addossandomi alla parete di roccia.

    Pietrificata dallo spavento Sara restò ad osservare l'ombra screziata della serpe che, ritta sul corpo, spostava, ora a destra e ora a sinistra, la testa seguendo le mosse del mio ginocchio.

    Superato quel primo istante di panico e temendo che la serpe avrebbe nuovamente attaccato, con una rapida mossa Sara avanzò di un passo, sollevò un piede e lo abbassò con violenza schiacciando la testa della serpe sotto la grossa scarpa.
    – Mi ha morso! – Dissi con voce roca sollevando la manica della camicia per esaminare il braccio
    Con orrore vedemmo due punture sull'avambraccio leggermente macchiate di sangue
    – Sono un grosso imbecille. – Sussurrai – Avrei dovuto immaginarlo
    – Papà, mio Dio, cosa possiamo fare? – Esclamò lei tenendomi il braccio
    – Non è nulla, resta calma, so quello che debbo fare
    Sara annuì facendo fatica a controllare le sue emozioni – Lascia che provveda io, – Disse tirando a se il braccio – tu non puoi lasciarmi
    – Ssst, ti prego sii brava, so come cavarmela
    Senza dire altro m'inginocchiai, cavai il coltello dalla tasca del giubbotto, estrassi la lama e porsi avanti il braccio destro.

    L'avambraccio era già gonfio e stava annerendo rapidamente. Tirai un grosso respiro e, trattenendo il fiato, con la lama affilata praticai un'incisione a croce al centro delle due punture.

    Un fiotto di sangue nero sgorgò dalla ferita che rapido portai alle labbra succhiando e sputando alle mie spalle

    Ancora stordita e inorridita da quanto stava accadendo, Sara seguì ogni mossa nel più completo silenzio, ma quando comprese che stavo per praticare un'altra incisione nel punto di massimo gonfiore, esplose in un grido tentando d'impedirmelo
    – Papà no! Non farlo, non servirebbe a nulla
    – Silenzio – Dissi con voce roca
    – Non fare il bambino. Ti prego, non farmi morire di spavento
    Senza darle ascolto praticai l'incisione
    – Sono soltanto poche gocce di sangue, – Dissi con un sorriso stentato sulle labbra – è quello che contiene la maggior parte del veleno, sta tranquilla non è nulla – Sussurrai prima di riprendere a succhiare le ferite e a sputare alle mie spalle

    – Se vuoi fare qualcosa per me vai a casa, prendi il vaccino che è nella ghiacciaia e porta una coperta. Avrò bisogno di calore e per qualche ora non potrò muovermi. Sii brava, andrà tutto bene, ora va… e non dire nulla ad Amelia.

    Sara non se lo fece ripetere due volte, con un balzo superò il ramo che ostruiva il sentiero e si lanciò di corsa lungo il viottolo, per scoprire che quella non doveva essere la sua giornata migliore.
    Aveva appena percorsi una ventina di metri che, incespicando in una grossa radice, finì con un piede oltre il ciglio del sentiero.
    Con una torsione del busto tentò di recuperare l'equilibrio afferrandosi al fusto di un giovane arbusto, ma non fu abbastanza rapida e un secondo più tardi iniziò a ruzzolare lungo la scarpata.

    Si arrestò a ridosso del primo melo con un tonfo che non lasciò prevedere nulla di buono e quando poco dopo riprese fiato e tentò di rimettersi in piedi, un acuto dolore alla caviglia la costrinse ad aggrapparsi all'albero per non finire nuovamente in terra.
    Con la manica del maglione asciugò il rivolo di sangue che colava da una ferita poco sopra il sopracciglio, poi, serrando i denti per non urlare dal dolore, si avviò verso casa saltellando sul piede sano.

    Bene o male raggiunse la sua camera, prese dal letto due coperte e in cucina l'antidoto, poi, prima di riprendere il cammino saltellando verso la collina, applicò una manciata di sale sulla ferita.

    Se per ruzzolare giù dal pendio aveva impiegato pochi secondi, per inerpicarsi con le due coperte sulle spalle e la caviglia dolorante, la cosa si fece decisamente più lunga.
    Un paio di volte le sfuggirono di mano le coperte obbligandola a tornare indietro e quando finalmente stava per issarsi sulla cima, le sfuggì l'appiglio dalla mano.
    Piena di dolori e colma di rabbia si sentì persa.
    – Dio aiutami – Singhiozzò riuscendo ad arrivare sulla cima.

    Io ero disteso in terra e mi lamentavo debolmente.
    Seguendo l'istinto Sara mi iniettò nel braccio il siero senza troppi complimenti, mi coprì con le coperte e dopo essersi tolta il maglione che indossava me lo pose sotto il capo.
    Per un attimo aprii gli occhi e le sorrisi.
    – Cos'altro posso fare? – Chiese lei con voce tremante
    – Porta dell'acqua, dovrai darmi spesso da bere

    Singhiozzando Sara tornò nuovamente a valle tentando di escludere dalla mente il dolore alla caviglia. Raggiunto il pozzo riempì d'acqua una fiasca e poi di nuovo su per il sentiero mordendosi le labbra ad ogni passo.

    Quando risalì ero caduto in una sorta d'incoscienza smaniosa e la temperatura del mio corpo era salita vertiginosamente. Sara mi bagnò continuamente le labbra e la fronte cercando di tenermi sveglio.
    Un'intollerabile paura s'impossessò di lei e quando comprese di non essere più in grado di combatterla, si inginocchiò e sollevati gli occhi al cielo gridò con quanta voce avesse in corpo
    – "Mamma Amelia" aiutaci.

    Forse non fu quella la volta che mi avvicinai alla morte, perché trascorremmo le prime ore aggrappandoci entrambi ai ricordi più belli.

    D'un tratto, risvegliatomi da uno stato di sonno agitato, mi resi immediatamente conto che le mie condizioni stavano velocemente peggiorando.
    A quel punto Sara non volle pensare, raccolse ogni sua energia e cominciò a pregare rovesciando il capo all'indietro urlando con voce roca
    – «Ti prego, non punirmi ancora...aiutami!»
    L'eco di quelle parole non si era ancora perso nel buio che la valle si arrestò come pietrificata e mentre i nostri corpi furono avvolti da una debole luminosità, lei riprese a pregare a voce alta «Non abbandonarci, salvalo» – Sussurrò ormai svuotata di energie mentre anche l'aria parve farsi di pietra
    Da quell'istante trascorse un tempo infinito, poi, improvvisamente, un raggio di luce vivissima saettò dall'alto avvolgendoci, mentre il silenzio fu infranto da un tuono possente.

    Pochi attimi dopo era nuovamente china sul mio corpo.
    – «Papà» – Sussurrò con voce sommessa
    – Sei tu? – Reagii al suono della sua voce
    – «Si» – Bisbigliò lei con una voce le cui emanazioni produssero sul mio cuore un effetto simile ad una carezza
    – Aiutami se mi ami, non ce la faccio più. Questo dolore mi uccide… – Riuscii a mormorare
    – «Ssst», – Sussurrò lei accostando le labbra al mio orecchio – «Sta salendo "mamma Amelia"...voi non potete saperlo, – Riprese lei – ma la vostra vita è la mia stessa vita e non dovrete temere… io raggiungerò il cielo se sarà necessario… ma non vi lascerò mai»
    Poi soffiò sulla mia fronte e mi sentii sprofondare in una stanchezza indicibile, ma prima ascoltai le sue parole.
    – «Ora dormi, riposa e non temere mio dolcissimo padre, quando ti sveglierai io sarò con te»

    Trascorse la notte, poi al mattino aprii gli occhi sui visi cerei e preoccupati di Sara e di Amelia.
    – Tesoro come stai? – Chiese Amelia sorridendomi
    – Molto meglio di ieri sera – Sussurrai sfiorando le mani di Sara che piangendo disse – Papà! Non farci più di questi scherzi, la prossima volta potremmo non farcela.

    Mi sollevai a sedere e la presi tra le braccia mentre lei piangendo mormorò
    – Non lasciarmi Papà, non lasciarmi mai più
    – Cosa avete fatto tutto questo tempo? – Chiesi
    – Cosa avremmo dovuto fare? Siamo rimaste con te
    – Mi dispiace… Avete avuto paura?
    – Non ne ho mai provata tanta – disse Amelia carezzando i nostri volti

    – Vi ho lasciate sole per una intera notte! Santo cielo, sono proprio un vecchio babbeo buono a nulla
    – Tu non lo sarai mai e poi non eravamo sole, un angelo era con noi
    – Sai che gran cosa? Non sarei potuto essere meno inutile. E dove avete dormito?
    – Qui! Sotto le coperte con te
    – Avreste dovuto tornare a casa e dormire nei vostri letti
    – E lasciarti solo? – Chiese Amelia scandalizzata
    – E allora?
    – Allora un accidente, quassù è pieno di lupi. Tu devi essere fuori di testa. Neanche per un posto in paradiso ti avremmo lasciato solo, avresti potuto avere bisogno di aiuto.
    – Questa frase mi pare d'averla già udita. Cosa ne dici, vogliamo scendere?
    – Sei certo di riuscire a farcela?
    – No, ma non ho alcuna intenzione di rimanere qui in terra a fare il babbeo. E poi se ricordo bene ho un conto in sospeso con un certo ramo. Ohi ohi! Il mio stomaco brontola vergognosamente
    – Ora ce ne andremo a casa e ti metterai a letto
    – Letto? Con tutto quello che c'è da fare?
    – Se ho detto che andrai a letto, tu andrai...
    – ...a letto. Va bene! Basta che la smetta di brontolare
    – Lo farai? – Chiese Sara guardandomi sorpresa
    – Certo, a patto però che sia soltanto per un giorno
    – Niente da fare, rimarrai a letto fin quando non ti avrà visitato il dottore. Più tardi andrò a Middlebury col carro – Disse Amelia
    – Ehi ehi ferma tutto! Quale dottore?
    – Papà, hai dimenticato d'essere stato morso da una serpe?
    – Oh poverina! Sarà sicuramente morta per over dose
    – Accidenti a te! – Borbottò Amelia – Almeno una volta vuoi farmi stare tranquilla? Non sei più un ragazzo
    – Chi lo dice?
    – Lo hai detto tu che sei un vecchio babbeo... Scusa, però se non vuoi vedermi morire devi smetterla di fare sempre di testa tua
    – Mia madre me l'ha data per farla funzionare
    – Di questo ne sono certa, però deve essersi dimenticata di dirti che non serve soltanto per tenerci il cappello...
    – E va bene! – Urlò lei – Non volevo essere scortese con tua madre, scusami… Tu mi farai morire
    – Non mettere tutto in tragedia, non ho alcuna intenzione di privarmi della tua compagnia.
    – Allora promettimi che te ne starai a letto
    – E il lavoro?
    – Una cosa alla volta, per ora il nostro lavoro sei tu
    – Anche voi non scherzate in fatto di testa dura
    – A furia di frequentare gli zoppi s'impara a zoppicare
    – Invece di dire scemenze perché non mi aiuti a rimettermi in piedi, sono stanco di stare sdraiato sul duro, ho tutte le ossa rotte – Brontolai sorreggendomi alle sue spalle.
    – Sapessi quanto pagherei per vedere cosa c'è in quella zucca che hai al posto della testa – Borbottò lei aiutandomi

    Senza degnarle di una risposta provai a camminare avviandosi lentamente verso il sentiero
    – Ora dove stai andando? – Chiese Sara
    – Dobbiamo scendere o no!
    – Maledizione, ma allora tu ce l'hai con noi! Vuoi farti entrare nella zucca che non sei in grado di scendere da quella parte
    – Va bene, sono un testone... però non c'è bisogno che me lo ripetiate continuamente – Risposi gridando quanto lei.

    Stringendosi nelle spalle Sara sorrise, ma quando mi voltai verso di lei, dovette farsi venire un attacco di tosse per mascherare meglio la ferita sulla fronte.
    – Come te la sei procurata? Fa vedere
    Schivando la mia mano Sara si allontanò di corsa lungo il sentiero
    – Ehi dove vai? – Urlai
    – A preparare la colazione! Fate in fretta
    – Vai piano incosciente, potresti ruzzolare di sotto
    – Già fatto – Mormorò fra se Sara sfiorandosi la fronte con la mano.

    Io e Amelia riprendemmo lentamente il cammino sorreggendoci l'un l'altra.
    Superato il meleto ci arrestammo a guardare lo scempio arrecato da Sara ai viticci.
    – Cosa vuoi farci, – Disse Amelia sorridendo – sai com'è quella benedetta figlietta, magari domani verrà a chiedere scusa a quelle piante.

    Quando raggiungemmo i gradini della veranda ero sfinito.
    – Dai lumaconi, cosa aspettate a salire? Ancora un po' e sarà tutto freddo – Gridò Sara dalla cucina

    Inspirai col naso l'aria profumata che proveniva dall'alto
    – Dovrebbero essere uova fritte con lardo... – Borbottai ad Amelia
    – ...e salsa piccante! – Terminò Sara affacciandosi alla porta

    Sorridemmo e scuotendo il capo riprendemmo a salire le scale mentre Amelia, grattandosi furiosamente la testa borbottò
    – Grazie a Dio è finita bene… per questa volta… vero Dio?

    FINE

  5. .
    <iframe width="420" height="315"
    src="//www.youtube.com/embed/YBilC_0hPUc" frameborder="0"
    allowfullscreen>
  6. .


    Una storia così…tra il fantastico e il surreale

    Ormai deserta la piazzetta sonnecchiava.
    Era quella l'ora in cui, i ragazzi ancora a scuola e i grandi in campagna, cadeva preda del silenzio e di un sole impietoso che ne arroventava il selciato.
    Dall'alto d'un maestoso pino, che sollevava la sua chioma solitaria tra la torre campanaria e la vecchia porta a monte, un affannato e chiassoso pigolio di passeri indicava la presenza d'un oasi fresca e ventilata.
    Seduto sotto una stretta lama d'ombra, con gli occhi chiusi e assorto nella ricerca d'un ricordo che tardava a riaffiorare, lui fu distolto dall'eco di una voce tanto fievole quanto chiara, che sembrava invocarlo dalle vette più alte.
    – Ehi!
    Avete mai provato ad appisolarvi in un pomeriggio d'estate all'ombra di una pianta, ed essere improvvisamente svegliati da un suono che, ferendovi, vi fa saltare in piedi mentre il sentimento vi tiene legati al sogno? E che appena desti tutto ciò che vi circonda, pur essendovi perfettamente noto e famigliare, sembra avere un altro colore?
    – Ehi! – Ripeté la voce
    – Ma da quali distanze mi chiami? – Chiese lui con voce roca volgendo gli occhi al cielo.

    Un istante dopo, mentre l'aria fu invasa del frullio d'ali di passeri spaventati, un giovane, che smontato dalla moto avanzava con il passo di chi ha perduto l'abitudine a camminare, lo salutò porgendogli una busta.
    – Per voi maestro
    Lui ringraziò con un cenno del capo, ed egli, dopo un ossequioso inchino, subito si dileguò lasciando dietro di se l'eco scoppiettante d'un motore stanco.
    Per alcuni istanti, fremendo per un brivido che lo percorse da capo a piedi, lui osservò la busta e mentre un sorriso gl'increspò le labbra si alzò e trascinando i piedi scomparve nella fresca penombra dell'andito della casa.
    Con passo lento salì in casa, ma nonostante la superba invadenza del sole che filtrava attraverso le imposte, ebbe l'impressione che nella stanza aleggiasse una nota di tristezza.

    Sedette alla scrivania, e ben sapendo che quelle pagine avrebbero riportato in vita tutti i ricordi che con tanta sofferenza era riuscito a nascondere in qualche piega della sua memoria, lacerando la busta avvertì nuovamente quel brivido percorrergli la schiena.


    Napoli, 4 Luglio 1952


    Gentile professore,

    ora finalmente conosciamo il nome dell'uomo al quale dovremo la più profonda e sincera gratitudine per il resto della nostra vita, poiché senza il suo generoso gesto alcuni di noi avrebbero mancato l'appuntamento con il futuro.
    Immagino stia chiedendosi come sia stato possibile risalire a lei, ed io non ho una risposta da darle. Forse qualcuno aveva stabilito che tutto ciò dovesse accadere, giacché alcuni mesi addietro, nell'aprire un plico inviatomi dalla nostra comune amica suor Mary, rinvenni una lettera spedita dal Vermont e indirizzata alla reverenda madre Mary Garrison.

    Il mio primo pensiero fu di restituirla così come l'avevo trovata, e l'avrei fatto se il destino non avesse provveduto a rovesciare sulla scrivania un bicchiere per metà colmo d'acqua.
    Comprenderà che nel tentativo di salvarne il contenuto fui costretto ad estrarlo dalla busta, e di li a leggerlo il passo fu davvero breve.

    A un primo esame riconobbi in quel documento la notifica di una transazione di danaro, e stavo già disinteressandomene quando scoprii che il beneficiario di tale operazione era la nostra comunità (Ed io che credevo nei miracoli).
    Può immaginare la mia sorpresa; da mesi la nostra comunità poteva attingere presso un conto bancario praticamente illimitato e del quale nessuno aveva saputo darmene notizie, ma ciò che tramutò la sorpresa in profondo turbamento, furono alcuni riferimenti a proposito di una persona scomparsa da oltre due anni, e al cui ricordo mi sento legato in modo indissolubile.

    Avrei dovuto comprendere prima e non attendere il ritrovamento casuale di una lettera, per collegare la mia bambina al Vermont e alla sua persona, ma deve sapere che sono l'uomo meglio disposto di questo pianeta a credere nei miracoli, poiché ho avuto la fortuna di viverne uno meraviglioso.
    Non desidero tediarla con il racconto di come quella notizia seppe scombussolarmi, ma non appena i miei obblighi lo permisero (Immagino saprà che sono l'unico medico di questa comunità) mi recai a Napoli a far visita alla nostra comune amica, la quale, messa alle strette dalla mia insistenza, non poté far altro che parlarmi dell'uomo con il quale la mia bambina visse gli anni dell'infanzia, e dell'enorme influenza che ebbe nella sua formazione.

    Da allora tentai ogni strada per rintracciarla, ma le lettere che inviavo al suo domicilio nel Vermont mi venivano restituite con l'indicazione «destinatario sconosciuto».
    Neppure la premura del nostro console ebbe successo, poiché non fu individuata una sola traccia del vostro passaggio in quella parte degli Stati Uniti.
    Comprendo bene che potrà sembrarle strano averla rintracciata così lontano dai luoghi in cui visse in compagnia di dela mia bambina, ma il merito è legato al ricordo di una gita che la nostra amata volle fare a Vitulano.

    Quella volta, quando lei mi chiese di accompagnarla a far visita a quel paesino di montagna, valutai la sua idea decisamente stravagante, ma se chiudo gli occhi posso ancora vivere tutta l'ansia con la quale si preparò a quel viaggio, e con quale rispettoso omaggio percorse quelle stradine immerse nel loro claustrale silenzio.
    Che sciocco fui a non comprendere i suoi turbamenti mentre sfiorava con mani tremanti ogni pianta e ogni muro saturo di austera e taciturna tranquillità, e quanta tristezza seppero esprimere i suoi occhi quando dovemmo abbandonare quell'oasi di pace per far ritorno a Napoli. Sembrava non volesse più abbandonare quelle vecchie mura e in particolare una minuscola piazza dominata da un pino secolare, sotto il quale pianse nel modo in cui non avevo mai visto fare; disperatamente, come se stesse perdendo qualcosa di più caro della sua stessa vita.
    Ed ora, amico mio, sono in grado di mantenere la promessa di raccontarle la storia del sentimento che unì un uomo comune ad una donna eccezionale, e non me ne voglia se per parlare di lei ho scelto un banalissimo foglio di carta, Vitulano è talmente prossimo a Napoli che avrei voluto e dovuto venire di persona a farle visita, ma ogni volta che mi accingo ad intraprendere il viaggio, una sorta di viltà, che non sapevo di possedere, cancella in me quella serenità e spontaneità che sarebbero necessarie a guardare negli occhi l'uomo che possiede una grandissima parte del cuore della mia bambina.

    È sera, e mentre le scrivo e osservo l'oriente che s'imbruna, tremo al pensiero che il chiarore della luna possa ingigantire il suo ricordo. Sarebbe il colpo supremo che il giorno mi infliggerebbe ancora.
    Ho vissuto al suo fianco un intero anno, e sebbene la sua presenza mi abbia maturato di almeno dieci secoli, ho il rimpianto di aver soltanto sfiorato quanto realmente viveva in lei.
    Affermare di averla amata più della vita, e confessare di non essere riuscito a comprenderla potrà sembrarle incoerenza, ma è la pura verità; per la mia povera mente fu troppo arduo raggiungere la vera essenza racchiusa in quella stupenda creatura.
    Era come se in lei vivessero due anime diverse, ma così simili da non lasciare spazio all'intelletto; quella terrena, dolcissima e dominata dalle umane debolezze, mentre l'altra, che si elevava sovrana sulle miserie mortali, appariva forgiata di una sostanza luminosa e impalpabile.

    Vivere al suo fianco era come dipendere da una dea la cui potenza nullificante cancellava ogni volontà, ma così capace di tenerezza che quando quella divinità si distaccò da me m'inflisse sofferenze simili alla morte.
    Durante una delle nostre passeggiate serali, mi confidò d'essere nata su di un pianeta d'incomparabile bellezza, ma che l'odio aveva trasformato in un luogo arido e su cui la vita era divenuta inconcepibile. Sorrisi di quelle sue parole pensando a una burla, ma sentii gelarmi il sangue quando aggiunse che presto sarebbe dovuta tornare sul suo mondo.
    Da allora l'idea di una sua partenza torturò la mia mente per mesi, riuscendo ogni volta, nel modo più chiaro e netto, a turbare i miei sonni, ma mai avrei immaginato che quell'abbandono avrebbe firmato indelebilmente la mia vita.
    Io credo d'essere stato assegnato a lei da un disegno superiore. Le volevo bene, l'adoravo, e non so perché lo stia scrivendo al passato se è ancora padrona del mio spirito.

    Gentile amico, mi auguro possa perdonare questo mio sfogo, ma è così tanto tempo che desideravo narrare la storia di un uomo che ha conosciuto l'amore di un essere soprannaturale.

    Ricordo la mia dolce creatura ultraterrena così com'ebbi a conoscerla due anni dopo la fine della seconda guerra mondiale; molto alta, magra e slanciata in forme armoniose proporzionate alla sua statura.
    Era una donna straordinaria in ogni senso, unica e molteplice e sebbene in lei non vi fosse nulla che destasse la più piccola incertezza, osservando il suo volto si aveva l'esatta impressione di sentimenti estremamente contrastanti.
    A volte e non senza un profondo turbamento, vi si poteva scorgere l'enorme forza che la permeava e subito dopo, ingentilite nell'intimo di uno dei suoi sorrisi, sapeva offrire quelle dolcissime espressioni che soltanto il volto dei bambini sanno donare.
    Quei suoi sorrisi, che sembravano nascerle dagli occhi e la cui dolcezza riusciva sempre ad innamorare, erano un'esultanza per la quale molti degli uomini di allora sarebbero stati felici di morire.
    La sua persona, il tono della voce e l'estrema bellezza sapevano disporre al meglio l'animo di chiunque le fosse accanto, ma ciò che in me sapeva provocare il massimo della meraviglia erano le sue splendide mani.
    Ne ero affascinato e a volte, osservandole in piena luce, avevo la strana impressione che fossero piccole e fragili come l'alabastro, ma era sufficiente che le tenessi tra le mie per comprendere quanto invece fossero forti e immense.
    Era in possesso di una natura difficile da interpretare, piena d'interessi e dotata di una sensibilità estrema, inflessibile con se stessa, ma così tenera da commuoversi alla vista di un mendicante. Tant'è che a volte, incurante degli sguardi della gente, si accostava a loro sedendo perfino sui marciapiedi.
    Di quei momenti colmi di presenze aliene, sebbene lei mi pregasse ogni volta di non seguirla in quelle difficili situazioni, mi è impossibile dimenticare la semplicità con cui riusciva a far sbocciare su quei volti sofferenti un sorriso o un accenno di speranza. E vedere con quanto calore sapesse offrirsi loro, era per me motivo di orgoglio misto a gelosia.
    Non che a me mancasse la capacità di aiutare chi ne avesse bisogno, ma osservarla tenerli affettuosamente stretti a se era qualcosa che mi scombussolava nel vero senso della parola.
    Così mi piace ricordarla, o come quando stretta a me, in quelle interminabili passeggiate per la città, diceva di amarmi di un amore del quale mai avrei immaginato l'esistenza.

    Quel sentimento, come un giorno lei ebbe a confidarmi, era l'eredità del suo primo grande amore, ma poi, avendo notato nei miei occhi un accenno di delusione, si scusò raccontando di un bambino pellerossa che le era morto tra le braccia quando aveva poco più di otto anni.

    Amava tenere i suoi stupendi capelli liberamente sciolti sulle spalle e un po' arruffati sulla fronte per mascherare una piccola cicatrice e quand'era gaia i suoi occhi brillavano di una luce rara, le sue labbra si piegavano al sorriso e tutto il suo essere emanava una forza nascosta che le donava vivo splendore.

    Un giorno, in uno di quei momenti in cui mostrava la sua grande capacità di gioire, volle salire sui cavalli di una giostra. Io tentai di dissuaderla ricordandole che quello era un gioco per bambini, ma lei, guardandomi con occhi imploranti sussurrò
    – Tanto tempo fa, quand'ero ancora una bambina impaurita, morì il mio piccolo grande amore, e io gli promisi che avrei giocato per lui. Sii buono, lascia che lo renda felice

    Dio com'era bella con i capelli al vento e lo sguardo perso nelle profondità del cielo, ma poi tutto passò e lei tornò a vivere il suo mitissimo quotidiano.
    A volte le accadeva di essere colpita da un intimo e doloroso sconforto e quando ciò si verificava dovevo ricorrere a tutta la mia allegria per riportarle il sorriso sulle labbra, e la sera che esagerai nel tentativo di farla sorridere, volle confessarmi come in quei momenti il suo pensiero andasse a suo padre
    – Immagino la sua felicità se potesse vedermi vivere questo momento magico. Ti prego, sii paziente, lascia che il mio orfano cuore possa trasmettergli l'intima dolcezza di questo sentimento.

    Quando la vidi per la prima volta, (Io ero iscritto all'ultimo anno di medicina e lei svolgeva il suo lavoro presso l'ospedale degli Incurabili di Napoli) se ne stava tranquillamente seduta in un angolo di una piccola trattoria mangiando e nello stesso tempo leggendo.
    Sarebbe sciocco negare che non fu la sua bellezza a colpirmi, anzi, ne fui talmente conquistato che rimasi ad osservarla facendo la figura del babbeo. Ma sebbene il suo volto esprimesse una luminosità assolutamente irragionevole, ciò che di lei seppe spaventarmi fu l'assoluta mancanza d'interesse che riservava a quanto la circondava.
    Una volta al mio tavolo tentai disperatamente d'impormi un minimo d'autocontrollo, ma fu del tutto inutile, poiché non soltanto continuai ad osservarla riuscendo perfino a perdonarle quell'eccessivo disinteresse, ma me ne innamorai.
    Da quel giorno, e per i molti giorni che seguirono, quella stanza divenne meta obbligata del mio unico pasto giornaliero. Per due intere settimane tentai inutilmente di farle alzare un solo sguardo su di me, ma non ci fu nulla da fare, per lei non esistevo, ero più trasparente dell'aria.
    Osai perfino seguirla, ma l'unica cosa che scoprii fu che sapeva dileguarsi come un fantasma.
    Così, pur essendone perdutamente innamorato, mi arresi all'evidenza e promisi a me stesso che non sarei mai più tornato in quel locale.

    E invece quella separazione doveva essere di breve durata, poiché la sera del giorno dopo decisi che l'indomani sarei tornato in quel piccolo locale.
    Trascorsi la notte maledicendomi per il timore di averla persa e quando il giorno successivo varcai la soglia di quel locale e vidi il suo tavolo occupato da altre persone, la mia paura si tramutò in terrore.
    Ricordo vagamente che qualcuno m'invitò a raggiungere il mio tavolo, e che una volta seduto un doloroso sconforto s'impossessò di me facendomi sudare freddo.
    Ero talmente infuriato con me stesso che avrei voluto alzarmi e fuggire via, ma qualcosa di molto potente m'inchiodò a quella sedia. Non so dire quanto rimasi in quello stato, ricordo soltanto che il mio sguardo restò fisso sulla porta del locale fin quando non si aprì e lei entrò illuminando la stanza.

    In quell'istante mi sentii scivolare in una sorta di piacevole sfinimento, ma ciò che capitò agli altri clienti dovette essere altrettanto gratificante, poiché quasi certamente dovettero fare i conti con i propri sentimenti.
    Com'era sua abitudine degnò la sala di uno sguardo veloce, poi, mentre con passo deciso si diresse verso di me, a me non restò che osservarla avvicinarsi senza neppure udire la sua voce domandare se poteva sedersi al mio tavolo.
    Non ricordo cosa risposi, anzi, per la verità non ricordo neppure se risposi, ma da quel preciso istante ebbe inizio la nostra storia e la mia vita.
    Nonostante la sua indole schiva e riservata fosse in netto contrasto con il mio carattere decisamente allegro e burlone, tra noi nacque un sentimento che in breve si trasformò in un vincolo assoluto che mi rese parte di lei.
    È impossibile definire in modo razionale ciò che provavo. Era come se il mio spirito si fosse fuso al suo cuore e lei, accogliendomi in se, mi concedeva di vivere ogni sua più intima emozione.

    Era talmente esaltante sentirsi parte del suo universo che avevo sempre l'incredibile impressione di superare ogni barriera umana.

    Un'altra cosa che non cessava di stupirmi era il suo profumo. Il suo corpo emanava una fragranza di mele che m'inebriava in ogni istante della giornata e se a volte durante la notte mi svegliavo, dovevo accendere la lampada per convincermi che non fosse presente nella stanza.

    Avevo scoperto che l'aggettivo «dottoressa» la infastidiva e confesso che mi divertivo moltissimo a farla infuriare. Del suo lavoro in ospedale preferiva non parlare, ma erano talmente straordinarie le sue conoscenze nel campo della medicina che fui portato a crederla un medico.

    Una volta, in uno di quei suoi momenti d'abbandono, le chiesi dove avesse discusso la laurea, e lei, con un candore disarmante rispose – Non ho ancora concluso la mia istruzione, ma ho la fortuna di frequentare la più grande scuola d'amore

    Commisi l'errore d'interpretare quella frase come un complimento rivolto a me e soltanto in seguito compresi interamente il senso di quella risposta.
    Stranamente in quel periodo lo studio non mi pesava, era tutto così semplice che a volte riuscivo a sorprendere i miei professori e me stesso, anticipando le loro conclusioni.

    Una sera, mentre eravamo presi dallo spettacolo di una splendida luna che si specchiava in mare, e senza che ne avessi fatto richiesta, mi confessò di essere figlia adottiva della Terra, precisando di essere nata due volte; la prima su di un mondo oltre il nostro sole e la seconda nel Vermont, in una grande casa tinta di rosso e circondata di alberi antichissimi.
    Di quella casa me ne parlò così dettagliatamente che in pratica divenne parte dei miei ricordi. Mi parlò del grande amore che nutriva per suo padre, di un gatto nero che dormiva sui suoi piedi, di una splendida donna che suonava il pianoforte come mai nessuno al mondo sarebbe riuscito a fare, di una collina che toccava il cielo, della sua amica Holy e del terrore che provava per l'acqua profonda.
    Ed era vero, poiché pur considerando il nostro golfo come un'entità che mai avrebbe potuto farle del male, ne aveva un tale timore che se per compiacere me si accostava alla spiaggia, doveva prima vincere quell'angosciosa paura che altrimenti l'avrebbe indotta a fuggire tremante.

    Per tutto l'inverno e parte della primavera, il nostro sentimento crebbe a tal punto che soltanto poche ore di separazione erano per noi torture indescrivibili. Nei nostri cuori si accendeva una così prepotente necessità che soltanto quando eravamo mano nella mano riuscivamo a trovare la pace in un oblio incantato.

    Il 28 Maggio, mentre la città si svegliava e frotte di turisti iniziavano ad immergersi in quel suo ritmo vitale che la rende unica al mondo, ebbi la certezza che in lei stesse cambiando qualcosa.
    Quella mattina, (Aveva voluto accompagnarmi dal dentista per essere certa che non avessi tentato di saltare l'appuntamento ancora una volta) quando c’incontrammo in galleria, mi corse incontro e stringendomi tra le braccia gridò ad alta voce – Ti amo!

    Non che mi privasse di slanci affettuosi, ma se fino ad allora i suoi gesti pubblici avevano mantenuto un'impronta di gelosa riservatezza, quella mattina sembrò essere una donna diversa. Si strinse a me con tale forza da togliermi il respiro, le sue mani non fecero che cercare le mie. Mi parlò dei suoi progetti, del nostro futuro, di come sarebbe stata la nostra casa tra gli alberi del Vermont ed io mi persi nell'immensità dei suoi occhi.
    Né l'aria dolce di quelle prime ore di un mattino di primavera, né la realtà rumorosa di una città che si svegliava allo sferragliare dei tram ci distolsero da quel fantastico e indimenticabile momento.

    Non rammento quanto tempo trascorremmo oltre i confini della realtà, non ho altri ricordi se non quello del suo volto sorridente, della sua allegria, di una grande casa tinta di rosso in un paesaggio colmo di alberi e quella di un pastore che celebrò le nostre nozze.
    Ma poi, come accade nelle migliori fiabe, tutto finì ed io mi ritrovai a osservare il volto beffardo del mio dentista.

    Una sera venne al nostro incontro con gli occhi arrossati dal pianto. Mi resi subito conto che doveva trattarsi di qualcosa di serio quando la vidi serrare tra le labbra la piccola pietra verde che custodiva gelosamente appesa al collo.
    Quel vezzo era divenuto per me un segnale, poiché quando la mia dea serrava quella pietra tra le labbra, io sapevo che in lei si agitavano forze alle quali non mi era permesso accedere, e che soltanto quel contatto era in grado di placare.
    Tentai di scuoterla provando ad essere più spiritoso del solito, ma non servì a nulla e fu soltanto quando finsi di adombrarmene che, posta una mano sulle mia labbra, sussurrò con un filo di voce
    – Ti chiedo perdono se questa sera non sono una buona compagna, ma ho il cuore colmo di dolore. Oggi ho perduto un amico... se n'è andato senza disturbare e senza che abbia potuto far nulla per aiutarlo. – Poi si strinse a me mormorando – Tu non dovrai lasciarmi mai.

    Fu una sera triste, non riuscivo a far sbocciare un solo sorriso sulle sue labbra, ma quando nel tentativo di distrarla le chiesi di parlarmi di quella pietra, di colpo riacquistò ogni interesse.
    Si strinse al mio braccio e, serrando nell'altra mano la pietra, mi raccontò la storia dolcissima di una bambina che tanti anni prima l'aveva donata in pegno d'amore a suo padre.
    Quando ci lasciammo volle ancora scusarsi – Non accadrà più te lo prometto – Disse tornando a serrare la pietra verde tra le labbra
    E invece quello fu l'inizio della parte più triste della nostra storia.
    Come al solito ci si vedeva in galleria, ma da quella sera i nostri incontri divennero sempre più brevi. Ogni volta trovava una scusa per lasciarmi solo e pieno di dubbi.
    E poi accadde.

    Un maledetto giorno scomparve dalla mia vita così come vi era entrata, e io non sentii più la sua presenza. Con orrore scoprii di non sapere né dove e con chi vivesse. In ospedale nessuno seppe darmi sue notizie, in parole povere era come se non fosse mai esistita.
    La cercai ovunque vagando disperato per la città come uno spettro impazzito. Di giorno per le strade sperando di riconoscere il suo volto tra la gente, di notte ripercorrendo gli itinerari delle nostre passeggiate.
    Non so quante volte mi sfiorò l'idea del suicidio. Tante, troppe volte, ma qualcosa di molto potente m'impedì di commettere sciocchezze.

    Un giorno, durante il mio girovagare, mi ritrovai al cospetto dell'immenso portone degli Incurabili, e improvvisamente sentii nascere in me la pazza idea di entrare a respirare quell'aria che era stata sua. Non so se quell'atto fu dettato da follia o disperazione, ma avevo l'inferno nel cuore e dovevo fare qualcosa per non impazzire.
    Varcai il portone con le spalle curve, e forse fu il mio aspetto sofferente che smosse la compassione di chi, sorreggendomi come un vecchio, m'introdusse in una stanza dove una suora, dal volto completamente in ombra, ci ricevette.
    Lei sollevò lo sguardo su di me per un solo istante, poi, dopo avermi fatto cenno di sedere, riprese il suo lavoro.
    Stava avvenendo tutto troppo in fretta e il silenzio che regnava nella stanza amplificava il mio disagio. Mi sentivo come svuotato d'ogni energia e quando provai a mormorare con un filo di voce – Madre... – Lei sollevò di nuovo il capo e sorridendomi rispose in uno strano italiano – Sono soltanto una suora. Il mio nome è Mary... Ancora un poco di pazienza

    Il tempo trascorse ingigantendo le mie paure e quando improvvisamente lei domandò senza guardarmi – L'amavi? – sentii mancarmi il fiato.
    Mio dio, ma che domanda era quella? Avrei voluto gridarlo quel si, ma la voce mi tradì e seppi soltanto annuire
    – Immagino tu voglia avere sue notizie, non è così? – Chiese ancora lei interpretando il mio imbarazzo
    Ero nella più completa confusione mentale, quando lei lasciò la scrivania e venne in mio soccorso tendendomi le mani
    – Vieni, – Sussurrò – ora posso condurti da lei
    Non fui certo d'aver compreso, ma la seguii con il cuore che batteva forte e le gambe che sembravano aver ritrovato tutto il loro vigore. Oltrepassai una porta avanzando lungo le corsie totalmente cieco di quanto mi circondava, ma quando ripresi coscienza e mi resi conto di muovermi tra povere culle di dolore, un malessere indicibile s'impossessò di me. Era una tale scena di desolazione, quella che mi circondava, da mettere i brividi al più cinico degli uomini.
    Improvvisamente sentii d'essere nudo come la morte, il mio animo si colmò di una fredda tristezza e quella gioia, che fino a pochi istanti prima aveva riempito il mio cuore, mi cadde sulle gambe, e sarei certamente crollato se lei non mi avesse sostenuto mormorando…
    – Coraggio!
    Fu allora che vidi il suo volto infinitamente stanco, ma nel quale ebbi l'impressione di riconoscere la mia bambina.
    – Questi erano i suoi amici – Disse lei riprendendo a camminare
    – È questo il suo lavoro? – Chiesi
    – Oh no! No, lei non lo considerava tale, lei li amava, viveva per loro, li accudiva, li consolava e li accompagnava serenamente alla morte.
    – Perché? – Chiesi rabbrividendo
    – Conosci un motivo migliore dell'amore? – Rispose lei a voce bassissima
    – Posso vederla? – Domandai
    – Si, – Mormorò lei annuendo – ti mostrerò dov'è sepolta

    Quelle parole mi caddero addosso frantumandomi e facendomi crollare sul pavimento come un povero cencio e soltanto quando in un letto di quello stesso ospedale riaprii gli occhi al mondo che suor Mary mi parlò di lei.
    Mi disse di come quell'angelo aveva vissuto per oltre un anno tra quei diseredati, immersa in orribili tempeste d'urli, di rantoli, di malattie d'ogni genere e orrori indescrivibili e che fu uno di quei morbi a contaminarla uccidendola giorno dopo giorno senza che nessuno se ne accorgesse.
    Contravvenendo ad una regola dell'ordine, avevano voluto darle sepoltura in un angolo di un piccolo giardino riservato alle loro tumulazioni. E quando fui in grado di reggermi sulle gambe, mi recai sulla sua tomba per deporvi un fiore e la mia anima.
    Il giorno che lasciai l'ospedale suor Mary mi strinse in un abbraccio lunghissimo, sussurrandomi alcune parole che riuscii a comprendere soltanto qualche tempo più tardi
    – Non abbandonare la speranza, lei non ti deluderà.

    Tornai a vivere in famiglia, ma quel dolore che mi portavo dentro non mi consentì di riprendere una vita normale. Era come se un male oscuro avesse assorbito la mia energia. Di giorno cadevo preda di un'apatia insensata che mi strappava dal mondo e quando di notte mi svegliavo da sonni brevi ed agitati, mi ritrovavo sempre in lacrime.

    Per un anno lottai con la pazzia, ma neppure il tempo seppe mitigare il mio dolore, ed io finii con l'abbandonare gli studi, la famiglia e gli amici per riprendere il mio folle girovagare tra una moltitudine di esseri che, più disgraziati di me, non avevano più nulla da cercare.
    Accanto a loro conobbi la più profonda e umiliante delle condizioni umane, i morsi della fame, le punture del freddo, la violenza e quella dignitosa rassegnazione di chi, rimasto solo, ha come ultimo desiderio che tutto finisca il più presto possibile.
    Se possedessi il genio dell'artista saprei dipingerla quella disperazione, tanto era tangibile e concreta e se ne fossi capace racconterei di quante volte ho provato un nodo alla gola sentendomi impotente ad aiutare chi mendicava una briciola di calore umano e di quante volte ho sentito l'impulso di pregare, scoprendo d'averne perduto la capacità, poiché non è possibile che Dio possa permettere tanto dolore.

    La mia vita proseguì trascinandomi da un punto all'altro della città come un qualsiasi vagabondo, dormendo sulle panche del parco o nei portoni e mangiando quando era possibile.
    Fu allora che conobbi un male terribile a me del tutto sconosciuto, ma del quale molti dei miei disperati compagni ne erano schiavi, giungendo perfino a compiere atti di violenza per crearsi paradisi artificiali in cui racchiudere la loro disperazione, e prego Iddio che nessuno possa mai scoprire cos'è quel tormento che prende chi violenta il proprio corpo diffondendovi quella dannazione bianca.

    Fu un periodo estremamente difficile. Quell'inferno si era impossessato della mia mente inducendo il corpo in una confusione di false necessità, e ogni sera, addormentandomi, rivolgevo un addio al mondo.

    Una notte, mentre mi trascinavo nel parco piangendo senza vergogna, colpevole d'aver visto morire un timido ragazzo con gli occhi così buoni e teneri, ma che in un momento di disperazione aveva preferito darsi la morte, quando un lampo si accese nella mia mente e udii la sua voce.
    Avevo sognato quel momento così a lungo che credetti d'essere in punto di morte, ma quando sollevai il capo e ai miei occhi apparve la più desiderata delle visioni, nulla m'interessò più, il dolore, la fame, la morte, tutto fu cancellato dalla mia mente.

    La mia bambina era lì ad un passo da me...più bella che mai, in un silenzio primordiale e illuminata dal chiarore di una luna mai stata così brillante.
    E come un lembo di terra sa riaccendere la speranza nel cuore del naufrago, le sue braccia tese ebbero la forza di vincere la mia follia.
    Provai una gioia così grande che bruciò ogni mia residua energia e sarei certamente crollato in terra se le sue braccia non mi avessero accolto nel suo regno incantato
    – Perché quel pianto? – Domandai quando ripresi coscienza e mi ritrovai nel parco stretto al suo corpo scosso dai singhiozzi.
    – Debbo ancora lasciarti – Singhiozzò lei
    – No! – Gridai disperato – Non puoi uccidermi due volte
    Lei si staccò da me asciugandosi gli occhi con le mani come fanno i bambini
    – Debbo farlo per la salvezza del mio popolo – Sussurrò prendendo le mie mani tra le sue – ... ricordi quando ti dissi che la Terra non è la mia patria? Non ti raccontavo storie, il mio mondo è oltre la vostra stella, un posto dove, bandendo dal cuore ogni sentimento, la mia gente vive un'esistenza che voi uomini della Terra non riuscireste a concepire. Milioni di secoli or sono alla mia razza fu concesso l'immenso potere di guidare la vita, ma ne abusammo trasgredendone le regole e per questo fummo condannati alla sterilità. Io sono l'unica donna del mio mondo in grado di procreare, ma questa dote ha impaurito il mio popolo che per tenermi lontana mi addestrò a svolgere i compiti più ignobili. Da allora ho vissuto milioni di anni con l'unica compagnia del mio rancore e della mia rabbia e quando mi fu assegnato il compito di ricondurre a casa la nostra gente, che da migliaia di anni vive tra voi, credetti di avere scontato il peccato d'essere diversa...ma sbagliavo, il mio mondo m'inviava sulla Terra a compiere l'ennesimo misfatto; avrei dovuto ricondurre a casa soltanto le donne, separandole dalle loro famiglie e dai loro affetti... Quando scesi tra voi ero un essere capace di ogni nefandezza, priva di sentimenti, brava a compiere soltanto crudeltà...e il ricordo di quella che fui mi umilia profondamente. Ma poi accadde qualcosa che nessuno del mio mondo aveva previsto, incontrai un uomo meraviglioso che con infinita pazienza seppe ricucire le mie ferite e rischiando di perdere la ragione mise a nudo la mia anima. Egli m'insegnò a vivere come una semplice donna, a comprendere e perdonare...ed io non seppi e non volli impedirlo. Al suo fianco ho vissuto anni indimenticabili che custodisco gelosamente nel cuore, anni in cui egli mi ha amata come il più tenero dei padri, ed io imparai ad amarlo più di quanto amassi Dio. Quando divenni più grande, lui mi parlò di un sentimento del quale disse di non potermene far assaggiare le dolcezze, ma io non volli credergli e lo ferii a morte offrendomi d'essere la sua donna...Ora conosco l'enormità del mio peccato, ma allora non potevo credere che esistesse un amore più grande di quello che provavo per lui...E soltanto quando m'impose di lasciare la sua casa che compresi quanto male gli avessi fatto. Da allora ho vissuto con questo terribile dolore nel cuore, e per riscattarmi ho dedicato ogni mia risorsa ad aiutare i sofferenti. Ho trascorso i miei anni elemosinando il perdono come mi aveva insegnato e quando ho sentito di esserne degna sono tornata da lui, ed egli ancora una volta mi ha fatto dono del suo amore indicandomi la strada per incontrare la tua dolcezza, la tua tenerezza, la tua pazienza. Si amore, è accanto a te che ho compreso che quel sentimento esiste, ed è talmente grande da addolcire e modellare lo spirito. Questa è la ragione per la quale ti ho lasciato, dovevo tornare dalla mia gente per spiegare loro cos'è l'amore, ma non hanno voluto ascoltare... per loro ho fallito, ed ora dovrò battermi affinché possano cambiare. Capisci? Sai cosa vuol dire?

    Annuii, e mentre la paura mi torceva lo stomaco mormorai senza più forze
    – Ho soltanto te
    – Anche loro hanno soltanto me
    – Non mi abbandonare
    – Io dovrò lottare, – Sussurrò lei baciandomi sugli occhi – e tu non potresti sopravvivere... perderesti la vita e io non lo voglio
    – Allora abbandonali al loro destino
    – E come potrei? È la mia gente...ed io sono la loro ultima speranza
    – Ed io cosa sono per te, nulla?
    – Non essere crudele mio dolcissimo tutto, tu sei una delle cose più belle che mi è stato concesso amare
    – Io non temo la morte. Mi farò piccolo piccolo e se tu sarai al mio fianco saprò soffrire in silenzio. Ti scongiuro e se ancora provi qualcosa per me non abbandonarmi
    – Ssst, tu non lo sai, ma questo tuo dubbio mi uccide. Vuoi sapere se il mio cuore ti appartiene? Allora stringimi e brucia del fuoco che arde in me. Ascolta come il tuo amore mi fa sentire utile la vita. Guarda cosa sta crescendo in me, è il tuo bambino. Oh amore mio! Non dubitare, non farlo mai più
    – Saresti sola
    – Tuo figlio mi aiuterà a ricordare il tuo amore e la tua dolcezza, e io ti prometto che lo amerò e lo guiderò come avresti voluto fare tu
    – E di me? Cosa sarà di me?
    – Oh mio unico dolcissimo tutto! A te dovrò domandare perdono in eterno per il dolore che ho arrecato al tuo cuore e tu dovrai riuscire a non odiarmi... Accogli questa mia preghiera nella tua mente compassionevole, ricorda quanto ti ho amato, quanto ti amo e quanto ti amerò. Oh mio tutto, mio dolcissimo, mio cuore...che cosa grande ti sto chiedendo. Aiutami a sopportare l'intollerabilità del nostro distacco
    – Cosa mi rimarrà di te?
    – Ti lascio i miei amici. Li hai visti, ora tu sai cosa soffrono. Forse agli occhi di chi non vuol vedere possono sembrare diversi, ma noi abbiamo il dovere di comprenderli, di accettarli. È colpa nostra se hanno perduto la capacità di sognare e non aspettano più nessuno. Sono uomini che vivono senza più credere nei miracoli e tu dovrai compierli per loro. Oh ma non devi spaventarti, non sarai solo, loro ti aiuteranno e il mio spirito sarà sempre con voi. Non abbandonarli, hanno bisogno d'aiuto, di un sorriso, una carezza...e costa così poco. Amali come hai saputo amare me, ma non dimenticarmi, non cancellarmi dal tuo cuore, ricordami.

    Poi volgendo gli occhi al cielo gridò con voce altissima
    – Dio! Sei stato tu ad aprire il mio cuore a questo sentimento. Tu l'hai voluto e ora m'abbandoni. Abbi pietà, concedimi di vivere e morire. Ti supplico dio, ascoltami

    Ma dio non raccolse la sua invocazione e lei, dopo essersi ripresa, strinse forte le mie mani sussurrando con voce calma.
    – Quando sarò andata, racconta la nostra storia all'uomo al quale ho saputo dare soltanto pochi attimi di gioia, ma che per me ha rinunciato a vivere la sua vita. Di a mio padre cosa sono diventata, digli che cambierò l'animo della nostra gente. Promettimi che lo farai…
    Ed io promisi.

    Poi, lasciate le mie mani, si allontanò da me come se scivolasse nell'aria, mentre io, incapace di un solo movimento, restai a guardare un raggio di luce vivissima scendere dall'alto e portarmela via.

    Con sincero affetto
    Aldo

    #

    Lui si sentì mortalmente stanco, depose i fogli sulla tavola, chiuse gli occhi e senza opporre la minima resistenza accettò l'invito del ricordo di lei.
  7. .


    Storia fantastica… ma non troppo.


    Se avete pazienza e un po' di tempo, ve la racconto tutta questa storia decisamente fantastica… è la storia di una ragazzina, forse di 11 o 12 anni, che qualcuno, per disfarsene, aveva gettato come si fa con una mela marcia in un burrone profondo una decina di metri. Per sua fortuna un vecchio contadino passando di li, la trovò, più morta che viva, la portò nella sua casa, la curò… le scelse un nome, la incoraggiò a non lasciarsi andare, insomma la rimette in piedi e la ragazzina guarisce… ed è a questo punto che tra loro nasce un rapporto dell'altro mondo… nel vero senso della parola.

    Dal giorno del suo ritrovamento sono passati due anni… Ormai Fred sa tutto di lei e del suo viaggio tra le stelle, e lei si è integrata benissimo al fianco di quella persona… divenendo una perfetta contadina perché ha iniziato a vivere come l'uomo che l'ha salvata.

    Quella sera, seduta sulla panca di pietra, intenta a contemplare l’ardente scena della luna color rame, Sara si chiese se quello che provava in se e i fatti accaduti recentemente potevano confermarle d’essere felice.
    – È incredibile, per conoscere la felicità ho dovuto attraversare buona parte di questo universo
    Si grattò furiosamente la testa scrollando il capo
    – Chissà dove sarei ora se... Oh smettila! Ora sei qui e mi pare che non sia così male – Si chiese e si rispose ad alta voce.

    Sentendo il suo animo disporsi alla serenità tirò su le gambe, poggiò la fronte sulle ginocchia e aspirando profondamente l’aria notturna lasciò che tornassero alla mente le infinite verità di quel mondo avvolto ancora nei misteri della natura, della sua gente e delle sue nazioni bellicose che si confrontano creando grandi città, grandi industrie, grande arte, amori e grandi guerre.

    – Odio e amore albergano ancora il cuore degli uomini – Borbottò tra se
    Rimosse di proposito dalla mente quei pensieri osservando come il chiarore della luna avesse mutato lo splendore amaranto della casa.
    – Oh luna, sorella mia – Sospirò – sarò mai capace di rinunciare alla gioia in cambio del più grande dolore? Tu taci e non mi sei d’aiuto, ma mi sarai testimone

    Il mattino successivo si svegliò di buonora per preparare la colazione per Frederick Holmes, l'uomo che si era assunto il compito di farle da padre, avrebbe portato con se nei campi, poi tornò di sopra e prima d’infilarsi nuovamente tra le coperte entro in punta di piedi in camera di Fred per svegliarlo.
    – Buongiorno dormiglione – Gli sussurrò dopo aver deposto un bacio sulla sua fronte
    Poco dopo, quando lo sentì scendere, si alzò per andare alla finestra a osservarlo attraversare il giardino e scomparire al di la degli alberi.
    – Buona giornata – Sussurrò tornando tra le coperte
    Quando si decise a scendere il sole era già alto in un cielo sgombro di nuvole e sebbene quel mattino fosse uno di quelli che tanto la innamoravano, quegli strani pensieri della sera precedente continuarono a velare il suo spirito di una confusa tristezza.

    Si recò nella stalla bofonchiando alla sua maniera, ma soltanto qualche ora più tardi, quando una brillante lama di sole le comunicò che erano da poco passate le dieci, sospingendo il carro con i contenitori del latte appena munto verso lo sterrato che collegava la proprietà con la statale 7, il suo stato d’animo sembrò aver riconquistato la sua normale serenità.
    Per un po’ la tentazione di abbandonare ogni cosa e di correre nella valle la obbligò a un doloroso autocontrollo. Rientrò in casa, salì di sopra a rifare i letti, ramazzò il pavimento, tolse un po’ di polvere qua e la, scese a riempire le brocche d’acqua nelle camere e quando ridiscese, dopo aver svuotato della cenere il fornello del camino, si recò nella rimessa per spargerla sul tino dov’era in ammollo il bucato.

    Dalla legnaia trasportò in casa i ceppi già tagliati ammonticchiandoli con cura accanto al camino e quando sentì giungere il furgone del latte, uscì nuovamente pronta a condurre le mucche al pascolo.
    Con la mano rispose al saluto dell’uomo del furgone, il quale, come sempre, avvolto in un foglio di carta gialla, le aveva lasciato un coloratissimo bastoncino di zucchero sui contenitori vuoti.
    Forse fu a causa dell’aria limpida di quel mattino, o per il tepore del sole o chissà per quale altro motivo, ma nella sua mente fece nuovamente capolino quell’impertinente e allettante desiderio di corse sfrenate e di capriole sull’erba già alta.
    Sgranocchiando il bastoncino di zucchero condusse gli animali nei campi sul retro della casa e per un po’ se ne restò sdraiata sull’erba a guardarli invidiando la loro libertà.
    – Ciao, – Gridò all’indirizzo della vetta più alta sulla quale indugiava ancora un manto nevoso – togliti quel bianco di dosso, non senti che è quasi primavera?

    (Era stato Fred a istruirla sul modo di riconoscere l’arrivo di quella stagione. Le aveva insegnato a decifrare un’infinità di piccoli e curiosi indizi, a riconoscere i profumi, i colori vellutati delle aurore e soprattutto quei mille nuovi modi di agire degli animali che la lasciarono decisamente perplessa. Ma il giorno che guardandosi nello specchio scoprì che i suoi seni erano divenuti più turgidi dell’ultima volta che li aveva osservati, accadde quello che Fred non aveva previsto; se ne scappò in lacrime da suor Mary obbligandola ad una lunga e paziente opera di persuasione per farle comprendere quel certo insieme di meccanismi che rendono diverso il corpo di una donna da quello di un uomo. E benché tutto ciò si concluse con sua piena soddisfazione sentimentale e la primavera rimase la stagione delle cose nuove, la sua preferenza l’aveva ormai assegnata al coloratissimo autunno, quando gli alberi cambiano il colore e le foglie trasformano i boschi, i villaggi e i giardini in luoghi di magia variopinti di giallo e marrone, rosso verde e arancio.)

    Nel tentativo di soffocare quel desiderio di libertà concentrò la sua attenzione sugli animali e per un po’ le cose sembrarono andare per il verso giusto, ma quando quella urgente necessità spirituale l’invitò alla trasgressione, con un balzo superò lo steccato e di corsa attraversò il vigneto salutandolo con un grido
    – Ciao! Non temere, torno subito

    Quando raggiunse la cima della collina si lasciò scivolare sull’erba senza più fiato e per un po’, nascosta dal fusto della quercia, rimase ad osservare i gesti antichi con i quali Fred curava la sua terra.
    Sentendo crescere in se il prepotentemente desiderio di raggiungerlo fu costretta a dominarsi e per evitare che potesse scorgerla a poltrire, invece d’essere alle prese con il bucato, lasciò l’ombra amica del grande albero per discendere dalla collina lungo il versante più scosceso.

    In basso seguì lentamente il corso del ruscello fin dove, allargandosi in un ampia curva, si riversava in cascatelle sonore. Per un po’ restò ad ammirare quella scena, poi, saltando in punta di piedi sulle pietre, che affioravano dalla superficie dell’acqua, passò sull’altra sponda.

    Presa dalla crescente gioia per quel senso di libertà e superato di slancio il tratto in ascesa, si arrestò a osservare l’alta vegetazione che ondeggiava frusciante alla spinta di una brezza leggera.

    Con pochi salti discese il pendio per immergersi in quel mare verde, ma fatti pochi passi si arrestò sorpresa di non avvertire la presenza degli animali della valle.
    Provò a lanciare alcuni richiami che rimasero senza risposta. E immaginando (A volte accadeva) che stessero giocando con lei riprese il cammino, ma più avanzava e più qualcosa dentro di se, simile a una sensazione dolorosa, sembrava volesse indurla a formulare pensieri assurdi.

    Dopo un po’ quello stato particolare finì per rimuovere ogni allegria, lasciando subentrare in lei una strana e amara impressione di colpa.
    – Accidenti a te Sara non potevi restartene a casa? – Borbottò ormai decisa a tornare indietro.
    Ma in quello stesso istante vide animarsi di fronte a se (O le parve di vedere) un quadro ben noto alla sua memoria; un bossolo temporale in avanzato stato di dissolvimento.
    Nella stessa frazione di tempo in cui un neutrino nasce e raggiunge la Terra, il modulo inibì i centri di controllo riversando su di se l’intera sua programmazione neuronica.
    – Guarda in che guai ti vai a ficcare. – Borbottò ancora lei cercando inutilmente di cancellare dalla mente il ricordo di quanto le era sembrato di vedere – A volte vorrei essere un albero

    Con poche mosse precise raccolse sulla nuca la lunga chioma nera per rinfrescare il collo intriso di sudore
    – Lo sai mia cara che sei un pessimo soggetto? Ma come puoi pensare di andartene in giro con tutto il lavoro che hai da sbrigare – Pronunciò sottovoce abbandonando nuovamente i capelli sulle spalle, proprio mentre il suo corpo si irrigidì prigioniero di una forza sconosciuta e lei avvertì, dopo un lieve sussulto, il suo cuore cessare di battere.

    Il suo corpo si piegò e lentamente scivolò sull’erba.
    Non avvertì il contatto con la terra, ma le venne di chiedersi se Fred la stesse cercando.

    – Cos’è Fred? – Chiese un suono stridulo alla sua domanda
    – Chi sei? – Domandò lei sorpresa
    – Sono il tuo colore – Rispose lo stesso eco
    – Oh si…ti vedo… Sei lo stesso che vidi in Fred
    – Voi avete un unico colore
    – Tu sei la mia anima?
    – Non so cosa sia anima
    – Cosa ne è stato del mio corpo?
    – È laggiù, puoi vederlo
    – Quella sono io? Che buffo modo ho di dormire… Ma com’è possibile ch’io dialoghi con te se tu sei me?
    – Accade quando non si è del tutto distaccati dalla condizione umana
    – Intendi dire che sto perdendo la vita?
    Ne seguì soltanto un profondo silenzio.
    – Posso riavere il mio corpo? – Riprese Sara
    – Non ne hai più bisogno
    – E allora come faccio a tornare da Fred?
    – Vorresti tornare?
    – Io debbo! Non posso lasciarlo… Ehi colore!
    – Si?
    – Cos’è questa vibrazione che sento crescere in me?
    – Stai per inserirti nell’infinito
    – Ed è bene?
    – È bene
    – No, non è vero, è Fred che mi chiama
    – È soltanto un ricordo. Abbandonalo!

    Improvvisamente l’immagine del vecchio contadino che la sollevava tra le braccia per immergerla nel tino colmo d’acqua e sapone colmò il suo spirito

    – Ti sbagli colore, Fred non è un ricordo – Sussurrò
    – Ti ha fatto questo? – Chiese il colore
    – Quella volta me la combinò davvero grossa, ma imparai a non temere l’acqua
    – Devi abbandonare ogni suo ricordo
    – Ehi non scherzare, io non voglio abbandonare proprio nulla
    – Nulla ti trattiene
    – Beh, io dico che se non mi sbrigo a tornare a casa sono guai. E se non mi credi stammi dietro
    – Abbandonati al tuo colore, ora è questa la tua condizione
    – Ma che cavolo dici! La mia vita è Fred
    – Il tuo momento è arrivato
    – Io posso morire soltanto se Fred dovesse lasciarmi… Ti prego Fred aiutami!...
    – Nessun può udirti, tu non hai più voce
    – Sai una cosa colore? Tu ne capisci ben poco di amore
    – Abbandonati, nessuno potrà aiutarti
    – Vuoi smetterla… Fred saprà trovare la strada per raggiungermi
    – Non può
    – Ti prego Fred prendimi ancora per mano
    – Non può
    – Ssst, fai silenzio, non voglio parlare con te!

    Quel barlume di personalità che ancora viveva in lei lottò disperatamente per ricostituirsi in un'unità pensante. Gridò, urlò, pianse e pregò e a un tratto il colore si spense abbandonandola in un buio silenzioso.

    Seguirono attimi di confusione, dolore, rimpianto, incompletezza e improvvisamente tornarono tutti i suoi ricordi.
    Il primo segnale le giunse dal modulo che, restituendole calore, le permise di scorgere nel buio tutti i colori dei suoi tramonti e improvvisamente milioni di dolorosissime fitte le segnalarono il ripristino del ritmo cardiaco.

    Il modulo mantenne costante il valore del plasma fin quando le pulsazioni non si stabilizzarono, quindi lasciò a lei il compito di normalizzarne il metabolismo.

    Pian piano avvertì il suo corpo riacquistare il vigore perduto e mentre il frastuono del sangue si diffuse nella sua testa con il boato d’una cascata, anche il respiro riprese regolarmente facendole bruciare i polmoni.
    Provò a distendere le gambe che si mossero riluttanti alla volontà di cui disponeva. Cautamente socchiuse gli occhi e quando a una tremula luce riflessa dal soffitto distinse la sagoma di Fred, sentì tutta la stanchezza del mondo pesarle sulle palpebre.

    Quando uscì dal sonno la stanza era silenziosa e soltanto il riverbero delle fiamme nel camino davano vita alle ombre riflesse sul soffitto.
    Poggiando un gomito sul cuscino si sollevò ascoltando i suoni della notte che giungevano attraverso la finestra aperta.
    – Fred, – Sussurrò mentre lui si volse a guardarla – dobbiamo fare qualcosa
    – Stai giù, non affaticarti – Mormorò lui raggiungendo il letto
    – Ho da dirti una cosa
    – Puoi farlo stando distesa
    – Non ho più dubbi, quello che ho visto l’ho già veduto
    – Va bene, ne parleremo domani… Ora distenditi e riposa – Mormorò lui ricoprendola con le coperte
    – Ascoltami, – Insisté lei – ciò che ho visto è il Potere Oscuro
    Appena pronunciate quelle parole le fiamme cessarono di schioccare e l’aria parve farsi di ghiaccio.
    – Cos’è il Potere Oscuro? – Chiese lui sedendo sul letto
    – È quanto di più brutto possa esistere e sta attirando sulla Terra tutto ciò che c’è di cattivo nell’universo
    – Cosa vuole da noi?
    – Da te nulla, lui vuole me. – Continuò lei – E io sciocca che non avevo capito… Tutte queste guerre, questo immenso dolore che sconvolge la Terra
    – Tu devi avere la febbre
    – Ti prego Fred, non scherzare
    – Va bene, ma ora calmati. Quando ti sarai ripresa mi parlerai del Potere Oscuro
    – No, devi sapere subito… Ho sbagliato a non parlatene prima… Lui è la cosa più atroce che esista in questo universo
    – Può farci del male?
    – Lo ha già fatto, ed ora sta guidando le sue legioni sulla Terra
    Fred la trattenne impedendole di sollevarsi – Va bene, alla Terra penseremo domani, ora quella che mi interessa sei tu
    – Non puoi neppure immaginare quanto sia avanti nella sua opera. Tra poco più di un anno il presidente di questa nazione compirà un gesto inaudito
    – Roosevelt è una persona con le testa sulle spalle
    – Non sarà lui l’uomo che userà la forza dell’atomo per annientare migliaia di vite umane
    – Se ti riferisci al progetto Manhattan puoi stare tranquilla, uno degli scienziati è mio amico e al momento quell’arma è inutilizzabile. Perché hai detto che non sarà Roosevelt?
    – Non sarà lui l’uomo che utilizzerà quella messa a punto dal Potere Oscuro
    – Intendi dire che c’è un altro ordigno a fissione nucleare?
    – In Germania ci sono due cellule al plasma
    – Cos’è il plasma?
    – È l’elemento base di questo universo e lui è in grado d’innescare la mutazione molecolare e ridurre questo pianeta in una pallina più piccola di una mela
    – Non dire fesserie. Sarebbe uno scherzo di cattivo gusto… e si può evitare?
    – Il plasma non è presente sulla Terra e non può essere ancora riprodotto in questa parte di universo, ma lui può trasportarlo fin qui
    – Si può evitare?
    – Forse, ma quegli ordigni possono essere usati anche come armi a fissione nucleare… E se non vorrete scoprire l’essenza vera del male dovrete intervenire su chi guida il progetto. Dovrete riuscire a fermarli o sarà difficile tornare indietro
    – Conosci le regole, a un essere normale non è permesso intervenire
    – Potrei elencare un bel numero di volte in cui lo avete fatto
    – Beh… ma non abbiamo mutato il corso degli eventi
    – Bugiardo! Non fu un uomo normale a guidare la mano di Bruto?
    – Sarebbe accaduto comunque
    – Non lo nego, ma anticipaste i tempi
    – Fu per salvare migliaia di vite
    – E nel Luglio del 1863 non foste voi uomini normali a rovesciare le sorti della battaglia di Gettysburg?
    – Fu per lo stesso motivo
    – E chi è l’uomo che renderà libero lo stato indiano?
    – Quelle ingerenze hanno risparmiato molti lutti. In quanto a Gandhi egli...
    – Ssst, no, non devi darmi alcuna spiegazione
    – Ad ogni modo, seppure riuscissero a utilizzare quelle armi, non potrebbero distruggere l’intero pianeta
    – Anche se si trattasse di un solo uomo io ne soffrirei
    – Cosa centri tu?
    – Il Potere Oscuro è qui per me
    – E allora?
    – Dio mio Fred, ma cosa ti accade? Non capisci che questo è l’inizio? È così che lui ha distrutto moltissimi altri pianeti
    – Non riuscirà a distruggere la Terra
    – È già accaduto prima che altri come me scendessero su questo pianeta. Fosti tu a raccontarmi la leggenda di Terra e Amore? Ricordi?
    – È soltanto una leggenda
    – Può darsi, ma somiglia tremendamente a una storia vera
    – È la verità? – Chiese lui divenendo serio
    – Tu mi domandi troppo spesso se quello che dico è la verità. Eppure mi conosci, dovresti sapere che a te non mentirei mai
    – Può essere fermato?
    – Già una volta sono riuscita a scacciarlo, ma non a salvare dalla distruzione Eras… un mondo meraviglioso
    – Puoi batterlo?
    – Prima di scendere sulla Terra ero in grado di farlo, ma ora non ne sono più sicura. Oltre a me lui è l’unico essere che può competere con l’infinito. Con lui abbiamo dominato, è stata l'arma migliore che la mia razza abbia saputo costruire
    – Foste voi a crearlo?
    – Lo creò la nostra tecnologia su un modello proposto da chi allora era in grado di contattare l’entità guida
    – Cos’è l’entità guida?
    – Non posso darti una risposta, non l’accetteresti
    – Tu provaci
    – Alcuni degli abitanti del nostro mondo erano in grado di entrare in contatto con un’entità al di la di ogni comprensione umana
    – Che genere di entità?
    – Puoi chiamala Dio o con qualsiasi altro nome vuoi. Io posso soltanto dirti che ora quell’entità è sulla tua Terra
    Per alcuni istanti tra loro vi fu un profondo silenzio, poi lui sembrò voler spezzare quello stato di quiete
    – Cos’era quell’arma e quali compiti gli furono assegnati? – Chiese
    – Lui fu creato a somiglianza dell’entità che permeava l'infinito e fu dotato di poteri che lo resero simile a un Dio. Inizialmente il suo compito fu di difendere il mio popolo dalle invasioni, ma quando comprendemmo di quali poteri disponeva fu riprogrammato e impiegato a svolgere altri servizi.
    – Quali?
    – Posso dirti che la migliore delle doti di cui fu fornito fu quella di dare la morte. Con quell’arma riconquistammo quanto ci era stato tolto, ma quando tornammo a dominare l’intero sistema egli ci sfuggì divenendo il nostro più inflessibile nemico
    – Per quale ragione?
    – Suppongo a causa della nostra stupidità. Eravamo così presi della nostra grandezza che non ci rendemmo conto che nel frattempo non soltanto aveva acquistato una sua identità, ma intuì chiaramente che stavamo per renderlo mortale
    – E non provaste a rintracciarlo?
    – Fu tentato l’impossibile, ma ormai le sue capacità erano al di la di ogni nostra possibilità
    – Anche della vostra entità guida?
    – L’avevamo persa Fred, non era più con noi
    – Ma tu...
    – Io sono giunta miliardi di secoli più tardi
    – Puoi dirmi cos’è per te quel contatto?
    – Certo che posso, ma tu devi promettermi che non penserai a me come a un mostro… Quel contatto è luce, è calore, è bene
    – Cos’è che ti fa credere che lui voglia te?
    – Quando sfuggì al nostro controllo fummo costretti a trasformare la nostra condizione fisica in uno stato di vita energetica. Ma la cura fu ancora peggiore della malattia, poiché quella condizione ci precluse la capacità di procreare
    – Eppure un giorno tu sarai madre
    – Quando mi fu imposto questo corpo non ne fui felice, ma poi tu mi hai insegnato ad amarlo e a rispettarlo, ed io ora vorrei non doverlo più abbandonare
    – Nessuno ti obbliga
    – E invece si… E tu lo sai benissimo

    Lui annuì in silenzio.
    – Perché debbo essere io ad affrontarlo… Io voglio vivere
    – Un giorno troverai quella risposta
    – Certo, ma quel giorno perderò te
    – Credi che lui ti abbia riconosciuta? – Chiese Fred provando a interrompere l’argomento
    – Forse. Una delle sue regole è quella d’iniziare il possesso utilizzando la paura. Quella è la porta attraverso cui inizia il possesso di un essere dotato d’intelligenza
    – Tu hai avuto paura?
    – No e questo mi preoccupa, non avrebbe dovuto colpirmi
    – Ad ogni modo ne sei uscita fuori
    – Il tuo ricordo è stato più forte della mia morte. Tu mi hai preso per mano forzando la mia volontà
    – Ho soltanto trasportato il tuo corpo in casa
    – Un giorno mi sarà dato sapere quanto ti devo e allora temo che dovrai sopportare in eterno la mia gratitudine
    – Beh… se ti interessa saperlo non sarà un sacrificio – Disse lui tentando una battuta di spirito – e per dimostrarmelo comincia ad essere più cauta… non vorrai farmi prendere un colpo, vero?
    – Hai ragione, sono stata imprevidente. Mi ha colta nel momento in cui avevo l’animo colmo di dolcezze. Oh Fred! La tua Terra è così bella

    Fred sorrise scuotendo il capo
    – Hai già pensato a cosa fare?
    – No, ma dovrò farlo, non posso rischiare che questa guerra che da anni divide gli uomini distrugga il pianeta
    – Non è cosa che ti riguarda
    – Mi riguarda e come. Hai mai pensato se qualcuno dei tuoi amici abbia già perso la vita a causa di tutto questo odio?
    Il volto di Fred assunse un pallore mortale e lei, notandolo, saltò sul letto abbracciandolo
    – Oh mio Dio scusami! Tu non hai alcuna responsabilità, non volevo rattristarti. Ti prego, perdonami, non volevo che tutto ciò coinvolgesse la tua gente, ma ti prometto che farò di tutto per farla cessare, dovesse costarmi la vita.

    Nell’aria della stanza si percepiva l’incombenza d’una minaccia, Fred si staccò dal suo abbraccio avviandosi alla finestra.
    Sollevò appena la tenda guardando fuori e dopo pochi istanti, quando i suoi occhi si furono assuefatti al chiarore della luna, gli parve di vedere un ombra muoversi tra gli alberi e il piccolo cancello di legno aprirsi e chiudersi senza il minimo rumore.

    A conferma di non aver sognato da basso giunse il rumore attutito di cavalli condotti furtivamente per il viale
    – Fred! – Sussurrò Sara
    Lui si volse e con un dito sulle labbra le impose il silenzio.

    Intuendo cosa stesse accadendo Sara assunse il controllo della mente di Fred, creando nei suoi ricordi l’abituale scena di una notte qualsiasi. Quindi, dopo aver distorto lo spettro ciclico del tempo, operò l’aggancio con le tre figure a cavallo che lentamente si avvicinavano alla veranda.
    Una di loro scivolò a terra nel silenzio più assoluto e, mentre le altre rimasero in attesa come ombre di pietra, salì i gradini scomparendo al di sotto della tettoia.
    – Non è lui – Comunicò Sara

    Fred si voltò provando un leggero senso di vertigine e prima che potesse aprire bocca Sara lo raggiunse nuovamente con un segnale mnemonico
    – Non impressionarti non sei ubriaco, quella vertigine è dovuta al contatto della mia energia. Il modulo sta saggiando i tuoi limiti… mi autorizzi a collegarti a lui?
    Fred annui semplicemente
    – Non preoccuparti, nessuno può intercettare questo contatto
    – Cosa accadrà?
    – In apparenza nulla di straordinario. Riceveranno immagini di umani che dormono… e tu non dovrai avere paura – Sussurrò prendendo tra le sue una mano di lui – Ora dovrò tradurre i loro schemi e avrò bisogno di qualche minuto di tempo. Sta tranquillo, fin quando ci saranno fiamme nel camino non tenteranno di entrare in questa stanza. Sono esseri che non gradiscono la luce. Mi raccomando non forzare il controllo del modulo, resta calmo, più tardi ti spiegherò

    Trascorsero più di due ore prima che Sara concludesse la sua prima battaglia terrestre e furono ore in cui ogni uomo o animale, ogni foglia, ogni filo d’erba, ogni goccia d’acqua visse in paurosa attesa.

    Un attimo di eternità in cui ogni cosa parve rimanere sospesa tra la vita e la morte.

    Anche la casa parve aspettare trattenendo il fiato.
    Poi, d’un tratto, la figura sulla veranda si mosse e alla porta risuonò un colpo, non molto forte, ma energico.
    – Tentano di svegliarci – Gli comunicò Sara esercitando una leggera pressione sulla sua mano – Non sarà difficile trarli in inganno, ma tu dovrai fare esattamente quanto di dirò. Tra alcuni istanti muterò il tuo stato di sonno e ti sveglierai, ma fai attenzione, dovrai essere il più confuso possibile. Preoccupati degli animali nella stalla e di quanto avremo da fare domani, ma per carità non pensare assolutamente a me. Questa notte dovrò essere la cosa meno importante del mondo. Hai capito Fred? Sarai capace di nascondere i tuoi sentimenti?
    – Spero di si
    – Perdonami, ma non possiamo rischiare
    – Leggeranno la mia mente?
    – Puoi giurarci, ma non te ne accorgerai. Usano tecniche che non conosci… e ora debbo chiederti una cosa molto importante… debbo cancellare il mio ricordo dalla tua mente
    – Non provarci neppure - disse lui scuotendo il capo
    – Oh Fred, neppure io desidero abbandonarti, ma potresti non farcela
    – No! – Reagì lui a voce bassa
    – Neppure immagini di quale potenza dispongono
    – Non ha importanza… tu non esci dalla mia mente
    – Ne va della tua vita
    – E tu credi che potrei vivere senza i ricordi di mia figlia?
    – Oddio… finalmente l’hai detto… – Sussurrò lei scoppiando in un pianto silenzioso e carezzandogli il volto – e ora che ho ritrovato mio padre non voglio perderlo
    – Sta tranquilla, non mi perderai.
    – Ancora una raccomandazione, niente paura o sei morto e questo non potrei proprio sopportarlo.

    Trascorse ancora del tempo e quando in lontananza un gallo cantò, annunziando che stava per giungere la fredda ora che precede l’alba, le tre figure scomparvero.

    Come ogni mattina, quando ancora il sole non aveva illuminato la loro terra Fred e Sara uscirono di casa per recarsi nella stalla. Il cielo era sgombro di nuvole e un fastidioso vento, che aveva preso a soffiare da Nord, rendeva l’aria pungente.

    Via, via che le ore passarono il cielo mutò il suo aspetto coprendosi di nubi scure, il sole iniziò a languire e il vento, cambiata direzione, sembrò rinforzare spazzando con impeto la campagna.
    Allarmato per quella insolita violenza Fred lasciò la stalla per recarsi a rinforzare le strutture delle serre e quando più tardi Sara lo raggiunse lottò al suo fianco contro il vento per il resto della giornata.

    Quando la luce del giorno iniziò a scemare il vento cadde di colpo e un’aria fin troppo calma lasciò presagire probabili rovesci di pioggia.
    Sistemate le ultime cose ripresero la strada di casa attraversando il meleto in cui si era già addentrato il crepuscolo.
    – Credi che pioverà? – Chiese Sara
    – È probabile, c’è troppa calma. Non vedo l’ora di rientrare
    – Sei stanco?
    – Ho fame, cosa si mangia stasera?
    – C’è poco da scegliere
    – Non dirmi che siamo di nuovo all’asciutto?
    – No, ma è tardi per preparare qualcosa di caldo
    – Ne avrei proprio bisogno
    – Vuoi preparare le tue bistecche?
    – Perché no
    – Non abbiamo brace
    – Santo cielo, ma tu ce l’hai proprio con me
    – Va bene, stasera si mangia carne – Borbottò facendo una piroetta su se stessa

    L’oscurità li colse a ridosso del piccolo vigneto, ma ormai erano al sicuro. Sara accese il fuoco nel camino dabbasso e prima di salire a sistemare quello nelle loro camere preparò la carne sulla griglia lasciando a Fred il compito di controllarne la cottura.

    Discese quando il profumo della carne arrostita dilagò verso l’alto e come al solito iniziarono a discutere del più e del meno, ma principalmente del vento e dei danni che aveva causato.
    Dopo cena Fred sedette davanti il fuoco con la sua pipa stretta tra i denti e lei, com’era solito fare, si sdraiò sul pavimento con il suo gatto sul seno.
    – Ho l’impressione che stasera non avremo visite
    – Ti sbagli Fred, – Lo interruppe lei – sono nuovamente in giardino
    – È probabile che siano tornati perché non sono certi della loro prima analisi.
    – Quale sarà la mia condotta questa sera?
    – Continua pure a fumare, al resto provvederò io
    – Posso tornare ad averti nei miei pensieri?
    – Non ancora, scusami

    Trascorse una buona mezz’ora in un silenzio rotto soltanto dai rintocchi della pendola che continuava a segnare ogni quarto.
    – Fred! – Lo contattò mentalmente lei – Ora dovrai andare nella stalla come tutte le sere. È necessario che tu lo faccia. Insisti perché venga anch’io, ma non passare dall’interno, fai la stessa strada di ogni sera, prima chiudi il fienile e poi vai nella stalla, hai capito? Bene, un’altra cosa, quando usciremo cerca di essere il più naturale possibile, sono sulla veranda. Tu non potrai scorgerli, ma loro sono sulla veranda e sta pur certo che ci osserveranno attentamente. Se ti parrà di sentire un contatto non sorprendertene, dai la colpa alla stanchezza, ma niente paura. Ti ho detto cosa potrebbe accadere

    Svuotando la pipa sulla brace Fred si rivolse a lei con voce stanca
    – C’è d’andare nella stalla. Vieni con me?
    – A fare cosa?
    – Quello che avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto per via del vento. Dai, andiamo
    – Accidenti Fred, sono stanca morta
    – Ehi! – Fece lui sorpreso – Anch’io sono stanco, ma dobbiamo farlo
    – Sono stanca – Piagnucolò Sara
    – Alla tua età il sottoscritto lavorava come un mulo
    – Bella forza tu sei un uomo e io un ragazzina
    – Dai sfaticata!
    – Fred sono a pezzi e forse ho anche un po’ di febbre
    – Ecco fatto! Ci mancava soltanto che ti ammalassi. Okay vado io! Ma non pensare di scansarti il lavoro di domani con quella scusa. Febbre o non febbre domattina si va nei campi, intesi?
    – Ma sto male sul serio, mi duole la pancia
    – Da quant’è che non prendi una bella purga?
    – Ma che cavolo dici? Io non ho bisogno di nessuna purga – Scattò lei
    – Due buoni cucchiai d’olio e tutto tornerà a posto. Ora vai pure a letto, passerò dopo a lubrificarti il pancino
    – Due buoni cucchiai? Ma neanche per sogno, io sto benissimo e vengo con te nella stalla
    – E il tuo mal di pancia?
    – Passato!
    – Uhm, l’ho sempre detto che devi avere qualche rotella fuori posto.
    Il cortile era completamente al buio e la luna, che prima s’affacciava tra le nubi, era scomparsa lasciando il cielo preda di una oscurità impressionante, giacché anche le stelle, a causa del vento che aveva ripreso a soffiare, sembravano essersi allontanate.
    Nella stalla furono accolti dai lamenti degli animali impauriti dal fracasso causato dal vento e per tutto il tempo che vi rimasero Sara badò che nessun dei loro gesti risultasse differente da quelli che abitualmente compivano.
    Com’era sua abitudine fu molto loquace, raccontando di una vecchia storia che ebbe con Queen Sheba, la mucca più anziana, il giorno che provò a saltarle sulla groppa.

    Rientrati in casa, dopo aver augurato la buona notte a Fred e averlo invitato a mantenere accesa la lampada nella sua camera, Sara si distese sul letto senza svestirsi.
    Attese con ansia che Fred si decidesse a salire, ma soltanto quando udì il suo respiro divenire pesante che sentì il suo spirito calmarsi, come se quel fatto puramente fisiologico fosse la porta capace di escluderlo dalle brutture che sarebbero potute accadere.

    Si distese rilassandosi completamente, aprì la mente al contatto che il modulo stava operando con gli schemi dei tre esseri all’esterno.
    Erano tutti identici, ignobili figure subumane, pronte a intercettare il minimo segnale di paura per dare inizio al processo di possesso psichico.
    Elaborate le equazioni ricevute dal contatto il modulo segnalò l’assenza di ogni connessione dei tre con gli schemi del Potere Oscuro.
    – Non sono in contatto – Segnalò
    – Cosa vuol dire non sono in contatto? – Chiese
    – Non risulta che vi siano emissioni di energia modulata

    Non del tutto convinta Sara stava per emettere la sonda che avrebbe danneggiato gli schemi mentali dei subumani, quando il modulo, registrando la presenza di lui nella camera, neutralizzò ogni sua reazione impedendo alla parte midollare del surrene di secernere l’ormone e dopo aver sospeso parzialmente l’attività dell’encefalo, rallentò il ritmo cardiaco e quello della respirazione ponendola in uno stato di sonno profondo.

    Quindi, prima di scomporre la sua immagine molecolare, operò la modifica delle radiazioni cicliche subatomiche dell’ossigeno nelle tre proiezioni dello spettro.

    Superata la prima fase d’emergenza controllata dal modulo, Sara riprese il controllo della situazione correggendo, di volta in volta, le alterazioni che lui provocava nel potenziale elettrico della sua mente.

    I primi dati che ottenne si rivelarono di difficile interpretazione, ma quelle difficoltà divennero ben presto preoccupazione quando la sua sonda, una volta penetrata nella sua mente alla ricerca di tracce emotive, non rispettò le procedure avvalendosi di schemi assolutamente alieni.

    Da quel preciso istante per Sara iniziò una lotta silenziosa, paragonabile a quell’intreccio di mosse e di contro mosse che un giocatore di scacchi compie, mentre arroccato in difesa prepara la trappola.
    Nel frattempo, l’energia che lui usava per forzare la mente di Sara, venne mutata dal modulo in milioni di risposte chimiche, le quali, trasformate in melatonina, lo costrinse a diversificarne continuamente le frequenze.

    Quella lotta mortale, oltre che creare nella stanza turbolenze elettriche inimmaginabili, scompose gli atomi dell’ossigeno che illuminarono la stanza di una colorazione cangiante.

    Lo scontro proseguì per un tempo lunghissimo nel massimo silenzio, poi, improvvisamente, lui comparò i segnali modulati della mente di Sara arrestando l’emissione energetica e ponendo la sua sonda in stato di assorbimento psichico.

    Sfortunatamente per lui, altrettanto veloce scattò la trappola preparata da Sara, che ponendo in falling–out lo status operativo dei tre subumani sulla veranda, lo costrinse a riprendere l’emissione per correre ai ripari.
    Soltanto una frazione millesimale di secondo più tardi lui si rese conto del tranello in cui era caduto, ma ormai la sua sonda aveva assorbito una carica di energia modulata pari ad oltre cinquanta milioni di Mvoltamper terrestri.

    – Shah mat! – Sussurrò Sara con voce roca quando tutto ebbe termine in una silenziosa implosione

    Distesa sul letto Sara attese che il modulo le proponesse una nuova emissione ciclica, poi, esausta, si abbandonò al pianto.
    Più tardi, quando il pianto si placò e sedette sul letto, osservando come il chiarore della luna ora sembrasse più umano, avvertì tutta la stanchezza pesarle sugli occhi.

    Trascorsero alcuni minuti in un silenzio irreale, poi, quando la mente la pose in una condizione vigile tra il sonno e la veglia, le apparve il volto di lui, reso lungo da profonde rughe simili a cicatrici scavate da insonnie ostinate.
    Quel volto alabastrino, che il chiarore della luna denudava risaltandone l’odio e l’intelligente rancore, era un insieme di atroci memorie, d’un amore tradito e d’un eterno viaggio.

    Pensieri veloci le solcarono la mente.

    – “Chi sei tu? Dio?
    – Oh no, non dirlo, non voglio saperlo, ho troppa paura”

    Fu una notte di sonni brevi e di risvegli affannosi, di smaniose veglie colme di pensieri angosciosi e di verità assolute e quando al mattino aprì gli occhi, cosciente d’aver vinto un’altra battaglia, sentì d’aver perso qualcosa di molto importante.

    All’esterno il vento sembrava essersi placato e il sole, che già vivido rifletteva i suoi raggi attraverso la finestra, dipingeva la camera di una luce bianca e oro pallido.
    Udì Fred che di sotto fischiettava come un albero carico di uccelli. Si vestì controvoglia e benché la mattina fosse limpida e serena e il cielo tinto d’un azzurro immacolato, provava in se una profonda tristezza. Si affacciò alla finestra e in un rituale che da anni si ripeteva ogni mattina, volse lo sguardo verso la sommità della collina.
    In un fulmineo flashback le tornò il ricordo di Eras e delle spietate parole che lui sussurrò con quella sua voce a volte lugubre e profonda e a volte fine e stridula

    “Guardale Sara, ricorda le stelle,
    così lucenti, garrule e belle.
    Perché è nella notte ch’esse morranno
    quando il sigillo le mie mani apriranno.
    Allor sulla vita leverò la mia mano
    rendendola vizza in un corpo inumano,
    ove piombare il suo sonno in eterno,
    negandole gioia e amore materno”

    Mentre Sara scendeva le scale dovette forzare la mente per abbandonare il sogno.

    Fred era nella sala, intento a sistemare la legna accanto al camino e sentendola scendere si voltò togliendosi la pipa dalle labbra
    – Buongiorno! Non hai appetito stamani?
    Lei annuì sorridendo – Ciao! – Mormorò aggrappandosi al suo collo per deporre un bacio sulla sua fronte – Prenderò un po’ di latte
    – Sarà freddo ormai
    – Non fa nulla. Ho tardato a prendere sonno
    In cucina si versò il latte in un bicchiere e tornò in sala sedendo sul pavimento accanto la cesta del suo gatto
    – Non hai più la tua tazza? – Domandò Fred
    – Non mi sento di mangiare – Rispose lei con un sorriso sulle labbra
    – Allora? Non hai nulla da dirmi?
    – C’eri anche tu, no?
    – No, purtroppo mi sono addormentato come un’imbecille
    – Non hai alcuna responsabilità in questo, è stato il modulo che ti ha imposto il sonno. Cosa vuoi sapere?
    – Avrei bisogno di un milione di risposte, ma forse è meglio se inizi dal modulo. Cosa accidenti è?
    – Mi domandavo se me lo avessi mai chiesto
    – Beh, ora l’ho fatto
    – Allora dovrai credermi sulla parola, non è facile parlarne e tantomeno comprendere
    – Tu provaci, da parte mia hai tutta l’attenzione
    – Nei tuoi ricordi esiste questo termine?
    – Si, ma è un termine al quale non abbiamo saputo dare un senso preciso, se non quello riportato dai dizionari
    – In pratica è il termine che il mio popolo assegnò a una precisa unità anatomica che risiede in un’area dell’organo di pensiero
    – Riguarda soltanto gli esseri umani?
    – No, è un attributo che appartiene a qualsiasi forma d’intelligenza. In questo universo esistono razze che non hanno nulla dell’aspetto umano, ma non per questo sono meno intelligenti
    – Vai avanti
    – Nell’uomo è collocato nel fondo della scissura traversa del cervello. Precisamente nella regione diencefalica a ridosso del terzo ventricolo, ed è talmente minuscolo da essere sfuggito agli scienziati della Terra per moltissimi anni. In realtà è una piccola glandola che chiamate “Glandola pineale”, ma sebbene si comporti come tale non è una vera glandola
    – Quello sarebbe il modulo?
    – Sei sorpreso? Ma racchiude in se una quantità di leggi incredibili. Nella sua struttura molecolare la natura ha provveduto a registrare la totale conoscenza delle leggi universali
    – Un archivio
    – In un certo senso può essere considerato un banco di memorie a cui si può attingere quando se ne senta la necessità
    – Come?
    – Qui cominciano le difficoltà. Non è possibile avere un contatto cosciente con il modulo se non attraverso la sua energia
    – E cosa accade?
    – Lo hai visto con i tuoi occhi
    – I tuoi poteri nascono da quell’organo?
    – I miei poteri sono il risultato dell’elaborazione di quelle leggi
    – E' un fattore ereditario?
    – Assolutamente no, almeno per gli uomini di questo pianeta
    – Mentre sul tuo pianeta lo è
    – Si, in un certo senso, poiché ci creò soltanto guai. E quando l’impero crollò la nostra gente fu ridotta a brandelli nel tentativo di carpirne i segreti
    – Tutti hanno le tue stesse capacità?
    – No, possono disporre di una frazione infinitesimale della mia potenzialità
    – Quindi tu e lui siete simili… ma come accidenti si chiama… gli avrete dato un nome!
    – Ameth!

    Al pronunciamento di quel nome la stanza sembrò farsi silenziosa.

    – Cos’è per te il modulo? – Domandò Fred per rompere il silenzio che si era fatto
    – È la mia mente, – Rispose lei parlando a voce bassissima – la mia voce, il mio corpo, è il mio sesto senso, il mio terzo occhio, i miei sentimenti
    – E tu cosa credi di essere per lui?
    – Vorrei non essere semplicemente il veicolo di cui si serve
    – È davvero tanto grande quella potenza?
    – Non puoi neppure immaginare quanto immensa sia la potenza che scaturisce da quelle leggi. A volte ne ho paura io stessa
    – Come si manifesta, voglio dire, cosa si prova?
    – Non esistono termini in grado di esprimere quelle sensazioni, ma se dovessi fare un paragone direi che somiglia al sentimento che provo per te
    – Perché non ci provi?
    – Sei un figlio d’un cane lo sai, vero? – Mormorò lei abbassando gli occhi
    – Si lo so, ma tu continua
    – Va bene, l'hai voluto tu… Quando dico di volerti bene o di essere felice, esprimo soltanto un’emozione e non ciò che accade ai meccanismi del mio corpo. La felicità o l’amore sono soltanto alchimia prodotta dalla nostra energia vitale. Immagina di dover descrivere qualcosa senza limiti, quali parole sceglieresti?
    – Anche il cielo non ha limiti, eppure è facile descriverlo
    – Ciò di cui parlo è qualcosa di cui non conosco i limiti Fred… parlo del mio sentimento per te.

    Scosso come se fosse stato percorso da un flusso elettrico Fred annuì lentamente, poi tornando a guardarla chiese
    – Sei d’accordo se cambiamo argomento? Ora desidererei sapere cos’è accaduto questa notte?
    – Non lo immagini?
    – Ho paura di si, ma vorrei conoscere i particolari
    – Preferirei che continuassi a non sapere, ma non sarebbe giusto. Ora mi collegherò con le tue cellule cerebrali
    Sorridendo Fred si dispose al contatto, ma via via che avanzava nella conoscenza il sorriso sembrò morirgli sulle labbra.
    – Hai paura? – Domandò Sara
    – Cos’è Ameth?
    – Una volta non era soltanto un essere composto da un amalgama di elementi biologici e tecnologici, ma la nostra arma migliore
    – Un essere cibernetico?
    – No, lui fu concepito come concetto. Conosci nulla degli studi di Heisenberg?
    – Qualcosa
    – Lui ha introdotto l’umanità in un campo che vi porterà lontano, ma fino a allora il concetto rimarrà quello di riconoscere un limite alla conoscenza di un fenomeno
    – Tu non sei un concetto, vero?
    – No… se ti riferisci al fatto di essermi espressa affermando di essere simile ad Ameth
    Fred annuì prima di chiederle – Allora cosa sei?
    – Non vorrei scuoterti più di così, ma per un attimo prova a pensare a me come…
    – …il bene e il male? – La interruppe lui
    – Pressappoco… ma ora ciò che importa è aver scoperto che in lui c’è qualcosa che sta mutando
    – In bene o in male?
    – Ne l’uno ne l’altro, sta soltanto tentando di somigliarmi
    – Allora è in bene
    Lei sorrise e scuotendo il capo mormorò
    – Sei incorreggibile! Questo suo mutamento riguarda soltanto il suo aspetto?
    – No, non si tratta soltanto di esteriorità, lui sta mutando la sua struttura molecolare in qualcosa che non sono riuscita a comprendere
    – Da cosa lo hai dedotto
    – Non è stato difficile… Ognuno di noi, assegnato a compiti temporali, conosce alla perfezione il suo quadro sinottico, ed è giusto che sia così, altrimenti non sarebbe in grado di prevedere le sue mosse
    – E ora invece non è più possibile?

    Lei annuì sorridendogli
    – Egli sarebbe dovuto rimanere nella logica dei suoi schemi e invece non è più l’essere con cui mi scontrai su Eras. Qualcosa di lui sta degradandosi, è più vecchio, più maturo. Ora usa schemi comportamentali che non erano nelle sue celle e se non mi sono sbagliata, ora conosce l’esistenza del modulo e sa come cercarlo
    – Possiede il modulo?
    – No, ma in teoria potrebbe averlo
    – Quindi potrebbe servirsene?
    – È assai improbabile, il modulo non è soltanto una parte dell’organo pensante, in esso vi è l’essenza della vita, la possibilità di creare… E creare non è un atto formale, è cedere la propria energia, è la scintilla che innesca il processo di modifica nella struttura dell’infinito… Ed egli non può cedere la sua energia perché non ne possiede una sua
    – Allora che genere di vita conduce? Cosa lo sostiene? In lui deve pur esserci un qualche tipo di energia
    – La sua vita è concettuale, non ha nulla che possa innescarla, può soltanto alimentarsi con ogni tipo di energia, inclusa quella prodotta da collassi stellari, ma deve farlo ininterrottamente se non vuol cessare di esistere
    – Poco fa hai detto che ti è sembrato più vecchio, cosa volevi intendere in realtà?
    – Quello che hai compreso, egli non si alimenta più
    – Cosa te lo fa credere?
    – Quando è entrato in me non si è limitato al controllo della mia natura, ha cercato qualcosa di eterogeneo
    – Avrei fatto la stessa cosa anch’io
    – Certo, ma in te esiste la scintilla della vita che lui non ha. La sua mente dovrebbe funzionare secondo la logica preregistrata nei suoi schemi e i dati in suo possesso non avrebbero dovuto consentirgli quell’insieme di stati illogici… No, lui ha voluto che sapessi
    – Ma se non ha agito secondo i suoi schemi, cosa può averlo guidato?
    – Non lo so Fred e se penso che si è fatto sorprendere con le sonde in fase di assorbimento... Non doveva essere così
    – Perché?
    – I suoi poteri sono praticamente illimitati, ma non poteva contare che su stimoli imposti. Non gli è stato concesso pensare
    – A sentire te invece ora sarebbe in grado di farlo
    – Deve essergli accaduto qualcosa di eccezionale se è stato capace di modificare questa condizione
    – Potrebbe cessare di esistere?
    – In teoria senza alimentazione dovrebbe essere così… ma ora lui possiede qualcosa che lo alimenta autonomamente… un’entità simile a una coscienza umana… Dio mio sono pazza! Non gli è stata data un anima. Sarebbe stato illogico concepire un simile mostro e dotarlo di sentimenti, non ti pare?

    – Le tue sono soltanto congetture? – Commentò lui dopo un attimo di silenzio
    – Cosa vuoi che ti dica… Ora non sono più sicura di nulla
    – Ammettiamo che per qualche strana ragione sia riuscito a dotarsi di una coscienza così come la conosciamo noi, non credi che lo porrebbe in conflitto con i fondamenti della sua struttura mentale o di quello che accidenti ha nella zucca… e avviarlo irrimediabilmente verso la fine?
    – Potrebbe aver superato quel conflitto avvalendosi di un aiuto esterno
    – Credi che qualcuno possa averlo aiutato?
    – Perché no? Io sono riuscita a superarlo grazie a te. Ricordi i miei primi tempi nella tua casa? Quando tu eri nei campi e io combattevo la mia battaglia per non impazzire? – Sussurrò lei guardando lontano – Beh, in realtà non sono mai stata sola, tu eri sempre nella mia mente e nel mio cuore, e io mi sono aggrappata a te per non perdermi

    – Intendi dire che potrebbe aver trovato una ragione per la quale sacrificarsi?
    – Ho paura di essere stata io quella ragione
    – È possibile… Ma cosa può volere da te?
    – Questo non lo so, ma deve essere qualcosa per cui neppure la morte è un sacrificio
    – Quante volte ti sei scontrata con lui?
    – Moltissime, ma questa è stata la seconda volta che ci siamo trovati faccia a faccia. Ci conosciamo talmente bene da sapere sempre quando l’altro si sta avvicinando
    – Eppure questa volta ti ha sorpreso impreparata, come può essere accaduto?
    – Perché è cambiato? Oh Fred, cosa vuol dire tutto ciò?
    – Cosa posso dirti, forse si è innamorato di te!
    – Lui non conosce quel sentimento. L’unica cosa che lo accomuna a un essere umano è soltanto un bel nome e niente altro
    – Un nome ben strano
    – Un nome che ha la sua radice nella nostra vecchia lingua, ma che ha un significato terribile
    – Verità? – Chiese lui sottovoce
    – Come puoi conoscere la traduzione di quel nome?
    – Sulla Terra esiste un’antica lingua ormai caduta in disuso e Ameth è la traduzione della parola verità
    – Che senso ha tutto ciò? Possono due mondi così lontani avere in comune la stessa lingua?
    – Potrebbero avere avuto la stessa matrice in tempi diversi, ma per conoscere la verità si dovrebbe riuscire a viaggiare nel tempo. Tu sei in grado di farlo?
    – Si, cioè no! Non è consigliabile e poi si dovrebbe tornare indietro miliardi di anni
    – Sarebbe interessante. Se non altro ci si potrebbe avvicinare all’inizio
    – E scoprire che non esiste?
    – Deve pur esserci stato un inizio, no?
    – Non come intendete voi
    – Conosci la verità?
    – Quello che gli uomini conoscono come universo, è soltanto un fascio energetico dotato di quattro dimensioni che occupa una minuscola parte dell’infinito
    – Puoi definire infinito?
    – Potrei chiamarlo vita o caos, ma non sarebbe il termine esatto. L’infinito è al tempo stesso fine e inizio. In lui si agitano un numero inimmaginabile di universi più o meno simili a quello che stiamo vivendo e di cui noi viviamo soltanto il tempo
    – Intendi dire che tutto ciò che ci circonda è tempo?
    – Il resto sono soltanto immagini. Ogni universo è un fascio energetico che si espande per miliardi di anni luce fino a raggiungere o a essere raggiunto dai confini di un altro universo, mi segui?
    – Con qualche difficoltà. E cosa accade quando due universi s’incontrano?
    – Non è molto simpatico, poiché nell’istante in cui avviene il contatto uno dei due deve necessariamente mutare condizione. La fase successiva sarà un unico fascio energetico che riprenderà a espandersi seguendo la curva del tempo
    – E la vita si estinguerà?
    – No, ma prevarrà la più forte
    – E tutto ciò proseguirà senza mutare mai?
    – Mai! L’unica condizione che non potrà mai variare, ma che annota ogni azione, è quella equazione astratta che voi chiamate tempo. È lui il vero dominatore
    – Che aspetto ha?
    – Vorrei saperlo, ma per quanto ne so non ha un vero aspetto
    – È la verità? – Chiese lui interrompendola
    Sara si strinse nelle spalle sussurrando – Ab ovo!
    – Citazione latine? Non ricordo di averti insegnato questa lingua
    – Nel mio bagaglio vi è la conoscenza di popoli e lingue ormai scomparse
    – Vogliamo tornare al nostro amico Ameth?
    – Perché lo hai definito amico?
    – Avrei fatto meglio a dire nemico?
    – No, non hai sbagliato a definirlo tale, poiché fu davvero un buon amico per il mio popolo. Per noi compì cose di cui mi vergogno perfino a parlarne e come premio per la sua fedeltà gli fu imposto quel nome.
    – Quale ragione vi spinse a concepirlo?
    – Non lo so, non so dirti perché sentimmo la necessità di concepire quell’essere blasfemo e concedergli la conoscenza della morte.
    – Su quali basi improntaste il vostro rapporto?
    – Non è mai esistito alcun rapporto, ma ci terrorizzò a tal punto che decidemmo di renderlo mortale per avere su di lui un controllo più efficace, ma come sai preferì fuggire portando con se il segreto della sua immortalità e della sua bestialità
    – Quindi non avevate alcun controllo su di lui?
    – Nei suoi schemi fu immesso un codice di comportamento che gli avrebbe impedito qualsiasi autonomia, ma qualcuno o forse qualcosa lo aiutò
    – Come fu possibile?
    – Non ci crederai ma quell’essere era divenuto un mito. Molti di noi ne avevano fatto un esempio da seguire. Anche in seno al Consiglio doveva avere dei seguaci fedeli
    – Era così potente?
    – Lo era talmente che le nostre migliori menti non stavano più al suo passo. Per nostra fortuna non riuscì ad annullare le chiavi di distruzione
    – Cosa sono?
    – Dovrei averne anch’io in qualche parte di me. Tecnicamente sono soltanto dei segnali inconsci preregistrati che scattano all’avverarsi delle condizioni previste dallo status legato a esse
    – Perché non le ha rimosse se era tanto potente?
    – Quelle chiavi sono l’essenza stessa della sua esistenza, senza di loro non avrebbe alcun sostentamento
    – Non foste davvero gentili con lui. Cosa prevedevano quelle chiavi?
    – Si raccontano molte storie a proposito di quelle chiavi, ma la più spiritosa è certamente quella legata a una donna
    – Una donna?
    – Si racconta che il giorno in cui egli si innamorerà di quella donna muterà condizione divenendo mortale
    – Stai scherzando?
    – È una storia Fred, nessuno di noi sa nulla d'innamoramenti
    – E tu cosa ne sai? – Domandò lui soffiando in alto una nube di fumo azzurro.

    A quella domanda, fatta con noncuranza proprio mentre lei stava portando alle labbra il bicchiere del latte, Sara ebbe un sussulto improvviso che le fece andare di traverso il latte e rovesciare il bicchiere sui pantaloni.
    – Porca vacca! – Esclamò con voce imbarazzata saltando in piedi e avviandosi di sopra tossendo
    – Togli i jeans ma non tentare di pulirli con l’acqua. – Disse lui ad alta voce – Vanno lavati con sapone, altrimenti resterà la macchia.

    Quando ridiscese e Fred si voltò a guardarla, per poco non gli cadde la pipa dalle labbra notando che aveva indossato l’unico capo del suo guardaroba che non fossero jeans.
    – Mio dio! – Mormorò
    – Gli altri jeans sono ancora nel granaio ad asciugare. – Borbottò lei impacciata – Perché mi guardi a quel modo? È la gonna che ho trovato nell'armadio che fu di mia madre
    – Somigli a tua madre… Ma cosa dico? Tu sei infinitamente più bella!

    Senza ribattere Sara sedette sulla poltrona tentando inutilmente di dare un verso alla gonna, finendo poi, dopo alcuni nervosi tentativi, per esplodere in una delle sua colorite espressioni.
    – Al diavolo! Più la guardo e meno mi piace. Ma come cavolo faceva a indossare quest’affare
    – Invece stai benissimo. Sai che è la prima volta che ti vedo vestita come una vera donna? Forse le gambe sono un po’ magroline, ma nel complesso la gonna migliora il tuo aspetto
    – Magre un corno! – Esclamò lei – Con quest’accidente di gonna ho freddo. Mi sembra d’essere nuda
    – Beh, tanto oggi non dobbiamo uscire
    – Per carità! Pensa se mi vedesse il mio gatto, sai quante risate si farebbe
    – Lascia in pace la gonna e rispondi alla domanda che ti ho fatto prima
    – Ma dai che cavolo dici, smettila! – Borbottò lei piegandosi ad attizzare il fuoco per mascherare il rossore del suo volto

    Con una mossa che accentuò ancor più il suo imbarazzo, Fred si alzò e si accostò a lei per scaricare sulla brace la cenere della pipa.
    – Ehi pulcino! Cos’è che non va?
    – Nulla! Smettila di dire fesserie, mi dai sui nervi – Scattò lei senza alzare il capo e continuando a trafficare con le molle
    – Cosa stavamo dicendo? – Mormorò lui tornando a sedere in poltrona
    – Si parlava di Ameth
    – E del suo tradimento
    – Fummo noi a tradirlo. – Disse lei tornando a sedersi sulla poltrona per riprendere la sua guerra personale con la gonna – Non avremmo dovuto permettere che si creasse una specie di indipendenza tendente a voler diventare come noi
    – Ho l’impressione di averla già sentita questa storia
    – Certo che l’hai sentita. Non vedi anche tu il ripetersi della storia dei vostri Adamo e Eva? Anche il tuo Dio scelse di renderli mortali quando tentarono di somigliargli

    Soffio, che nel frattempo era entrato in casa, dopo aver fatto un largo giro in cucina si diresse verso la sua cuccia, ma quando gli fu davanti restò a guardarla scuotendo la testa.
    – Beh! Cos’hai da guardare? – Esclamò lei – Non hai mai visto una donna?
    A quella battuta il gatto si accucciò, ma senza staccarle lo sguardo di dosso e lei, dopo aver tentato inutilmente di sistemare la gonna, si alzò andando a sedersi sul pavimento accanto alla cesta.
    – Ehi! Non mi riconosci? – Mormorò a voce bassissima – Sono io, Sara!

    Ovviamente il gatto non rispose, ma dopo averla osservata ancora per qualche attimo, sistemò meglio il suo corpo e nascose la testa sotto una zampa.

    – Ecco, hai visto se avevo ragione? – Esclamò lei rivolgendosi a Fred – Guardalo, sta ridendo di me
    – Ma dai! Ora non mi dirai che i gatti conoscono l’umorismo?
    – Lo conoscono, lo conoscono. Sai come ti chiama?
    – Me? Lui ha dato un nome a me?
    – A tutti noi ha dato un nome. Tu sei... forse è meglio che non te lo dica
    – Ora cosa credi che farà?
    – Non vorrà più guardarmi, ecco cosa farà!
    – Non intendevo il tuo gatto, mi riferivo ad Ameth
    – Cosa farà lui non è importante, quello che conta è cosa farò io
    – Cosa?
    – Dovrò cercarlo
    – Non ne vedo la ragione
    – Lui è sulla Terra per me. – Disse tornando a sedersi sulla poltrona – Sa bene che in questo universo non c’è posto per entrambi e a costo di distruggere questo pianeta tenterà di farmi uscire allo scoperto
    – Come può aver saputo della tua presenza?
    – Quando lo scacciai da Eras egli precipitò sulla Terra causando un bel disastro
    – Quando successe?
    – Era da poco iniziato questo secolo… ma non stare li a far calcoli, la Terra dista milioni di anni luce dalla nostra galassia e tenendo conto della curvatura del tempo il fatto avvenne in epoche remotissime
    – Non facevo calcoli, cercavo di ricordare cosa può essere accaduto di molto grave all’inizio del secolo
    – Te lo dirò io, era il 1908
    – Tunguska?
    – Si… ma per fortuna quella parte del pianeta era disabitata
    – Cosa fu? Una esplosione nucleare?
    – Qualcosa di molto simile. Quando Ameth penetrò nella vostra atmosfera l’accumulo di energia che aveva assorbito si era quasi esaurita, altrimenti la Terra sarebbe stata annientata all’istante
    – Dunque avevamo ragione, fu energia atomica
    – Ne parli come se si trattasse di una cosa malvagia. Ricordati che si tratta della mia energia!
    – Intendi dire che la tua energia è atomica?
    – Non esattamente come la conoscete voi, ma è pur sempre energia modulata ad altissima frequenza
    – Che accidenti è?
    – Un po’ di rispetto Fred! Non credo ti farebbe piacere se parlassi così della tua energia vitale
    – Puoi essere più precisa?
    – Dovrà trascorrere ancora del tempo prima che riusciate a riprodurla in laboratorio
    – Cosa la rende diversa dall’energia nucleare che conosciamo?
    – Tutto e nulla! Tra loro vi è molta similitudine. Sono atomi in cui le particelle caricate positivamente girano attorno a nuclei di segno opposto
    – Antimateria!
    – Non ti allarmare Fred! Ti assicuro che non hai nulla da temere
    – Non volevo dare quest’impressione, non ho paura, mi ha soltanto sorpreso
    – Perché?
    – Ho sempre intuito che in te vivesse qualcosa di diverso, ma non che il tuo essere...
    – Fosse composto di quella energia? – Terminò lei
    – Spero che tu sia in grado di controllarla… Perché tu la controlli, non è così?
    Sara rise
    – Sta tranquillo. Non è difficile controllarla, è un po’ come regolare la temperatura del forno quando preparo il pane. Insomma, è pressappoco la stessa cosa
    – Se lo dici tu
    – Sai che da quando sono sulla Terra ho scoperto di riuscire perfino a tramutarla senza problemi?
    – Ho paura di averti sottovalutato. Ti giuro che ero del tutto all’oscuro di questa tua caratteristica
    – Non raccontare balle
    – Perché dici queste cose?
    – Perché appartengono a te e non ho alcun diritto di entrare nella tua intimità
    – Cosa avrei fatto senza di te. – Mormorò lei stringendosi nelle spalle
    – In cosa puoi tramutarla? – Chiese lui fingendo di non averla udita
    – In molte cose, tra cui in energia positiva
    – Cosa vuol dire esattamente energia positiva?
    – Che può migliorare le condizioni subatomiche di questa parte di Universo
    – Vuoi forse dire che può influenzare il tempo?
    – Anche, ma a volte muta perfino le strutture atomiche
    – Ora sei tu a raccontare balle. Com’è possibile?
    – Questo non devi chiederlo a me, è il modulo che sa come fare
    – Immagino che se raccontassi in giro d’aver vissuto al fianco di un buco nero probabilmente mi prenderebbero per pazzo. Credi che la Terra possa correre qualche rischio?
    – Non scherzare Fred! Sai bene che finché ci sarai tu non potrà accaderle nulla. Comunque è soltanto una questione di tempo, tra trenta o forse quaranta miliardi di anni questo universo entrerà in contatto con un’altra dimensione composta di questa energia e allora...
    – Continua. Cosa vuol dire quel... e allora?
    – Allora sarà l’inizio o la fine, anche se in fondo è la stessa cosa
    – Ci saranno degli indizi?
    – Ce ne sono già. In alcune parti di questo universo si sono aperte delle fonti. Ve n’è una anche in questa galassia
    – Cos’è una fonte?
    – È un termine improprio, poiché attraverso quel contatto vi è soltanto assorbimento, ma quando sarete in grado di osservarla vi apparirà come una fonte
    – Se non altro ci toglierà dai piedi Ameth
    – Non ci conterei troppo, egli è in grado di manipolare ogni tipo di energia e sebbene non gli sia possibile tramutarla, può sopravvivere a qualsiasi contatto energetico
    – Davvero consolante! Ciò vuol dire che continuerà a fare del male?
    – Vedremo
    – Ha un senso quel vedremo?

    Sara rise scuotendo il capo
    – Quando cadde sulla Terra dovette credere che lo avessi seguito, poiché da quel momento ha tentato di tutto pur di farmi uscire allo scoperto. Sai quante guerre ha causato in questi quarant’anni sperando che intervenissi?
    – Perché avrebbe dovuto credere che tu lo avessi seguito?
    – È nella logica che lo domina
    – Perché non l’hai eliminato?
    – Potrei darti centinaia di risposte, ma non sarei sincera. La verità è che pur essendo nemici non ci odiamo. Almeno per quanto mi riguarda
    – Valutando quanto ti ha fatto non dovrebbe pensarla alla stessa maniera, non credi?
    Sara scosse il capo
    – Sbagli, egli non voleva uccidermi
    – Ma l’ha fatto
    – Si, l’ha fatto, ma sono certa che ne aveva programmato la conclusione
    – Se non voleva ucciderti, cosa cercava il modulo?
    – No, lui vuole qualcosa della Sara di oggi
    – Allora è probabile che possa ritentare
    – Per un po’ se ne resterà lontano a leccarsi le ferite, ma un giorno tornerà. Con lui ho soltanto vinto un’altra battaglia, ma lo scontro finale non è lontano. Sa bene che deve assolutamente battermi se...– Sara s’interruppe di parlare come se stesse seguendo un pensiero

    – Se? – Chiese Fred
    – Nulla, deve soltanto battermi
    – Stavi pensando a qualcosa in particolare?
    – Lascia perdere, non correre con la fantasia
    – Potrebbe batterti?
    – Dovrò scoprirlo
    – Posso aiutarti
    Sara scosse il capo
    – Nessuno è in grado di farlo, debbo affrontarlo da sola
    – E tu credi che te lo lascerò fare?
    – Oh Fred! Tu non vuoi proprio capire
    – Cosa c’è da capire?
    – Quello che avverrà tra me e Ameth non sarà uno scontro comprensibile nella logica. Non può essere paragonato neppure a una collisione tra due mondi. Sarà la sfida tra due entità simili al tuo Dio
    – Ad ogni modo non te lo permetterò
    – Fred! Mio dio, ma chi credi di essere? Veramente sei convinto di poter fare delle scelte in nome dell’umanità?
    – E tu puoi?
    – Io debbo!
    – Tu non devi nulla a nessuno di noi. Questo non è il tuo mondo
    – Non ferirmi ti prego, so bene che non lo è, ma sapessi quanto lo amo, ed è per questo non permetterò che finisca in una nuvola di atomi impazziti. Debbo farlo Fred! Debbo farlo per la tua gente o per la mia, per il tuo Dio, per mia madre, per la sua musica, per tutte le cose belle che ho nel cuore, per tutti coloro che ancora debbono nascere, ma soprattutto debbo farlo per te. Puoi chiedermi la vita, e io sarei pronta a donartela senza rimpianti, ma non potrò mai tradirti. A cosa sarebbero serviti i tuoi insegnamenti. Ti prego, lascia che realizzi il mio sogno, lascia che possa dimostrare a me stessa di meritare il tuo sentimento!

    – Tu non devi nulla alla Terra, il tuo compito è un altro
    – Il mio compito è combattere il male, e ora egli è qui
    – Allora dovremo trovare un’altra soluzione
    – Non ne esistono. Ho soltanto bisogno di trovare il coraggio di tornare a essere la Sara che ero prima di scendere sulla Terra. Non posso sperare di batterlo con quello che ora ho nel cuore
    – Cos’hai nel cuore?

    Sara sollevò il capo con il sorriso sulle labbra
    – Tante cose meravigliose; ho questa casa, la nostra terra, i miei amici animali, i tramonti, i sentimenti, le mie lacrime… e poi ho te Fred… Se vorrò batterlo dovrò tornare ad essere quella che tu hai appena sfiorato. Sarà terribile, ma spero che tu non debba vedermi, perché vedresti qualcosa che non ti piacerebbe

    Lui cercò nei suoi occhi una verità
    – Dio ti aiuterà – Sussurrò
    – Dio? Oh si, lui saprà capire, ma tu?
    – Sarai sempre il mio pulcino
    – Ho paura di perdere il tuo rispetto e credo che questo non potrei sopportarlo, sei così importante
    – Non ricordo d’aver mai fatto nulla di eccezionale
    – Che magnifico bugiardo sei. Secondo te è nulla avermi consentito di vivere la tua vita? Respirare la tua aria? È nulla avermi alimentato del tuo amore e donato un’anima? Debbo a te ogni mia gioia e dovrò essere grata al tuo Dio per avermi concesso di vivere al tuo fianco
    – Ora stai proprio esagerando, sono soltanto un poveruomo che ti ha dedicato un poco del suo tempo
    – Perché l’hai fatto? Tu hai sempre saputo chi sono e cosa avrei dovuto fare, vero?

    Fred le sorrise senza rispondere.
    – Però sapere che avrei potuto distruggere i sogni di un intero popolo non ti ha impedito di volermi bene
    – Sapevo che saresti potuta cambiare e poi lo sai, avevo bisogno di un aiutante… ormai sono vecchio
    – Non l’hai fatto per amore?
    – Oh beh, io amo tutti
    – Anche per tua figlia riserveresti lo stesso amore?
    – No, per lei ho in serbo un amore diverso
    – Più grande?
    – Semplicemente diverso e tu sbagli a quantificare l’amore. Sarebbe riduttivo
    – È vero, mi è difficile pensare che ciò che provo per te possa essere più o meno grande di quello che nutro per il mio gatto o la nostra terra. Sai cosa penso?
    – Dovrei saperlo?
    – Non mi meraviglierei se scoprissi che nutri sentimenti d’amore anche per Ameth
    – Lo sai, sono un gran testone
    – No che non lo sei e da quando ti conosco non faccio che domandarmi perché Dio non ti abbia concesso il contatto
    – Probabilmente perché il mio amore non è grande come il tuo
    – Ora sei ingiusto. Vuoi sapere cosa ha saputo fare questo tuo amore? Ha fatto di me una donna che crede di credere in Dio senza alcuna esitazione. Tu mi hai insegnato a riconoscerlo dentro di me e in ogni cosa che mi circonda, in ogni mio pensiero, nel sale delle mie lacrime, nella mia gioia di vivere…
    – In questo non c’entro proprio nulla
    – Tu dici nulla? Ma se è per te che ho abbandonato quella mia cultura priva di ogni sentimento
    – Era inevitabile. Quella cultura è soltanto dotta ignoranza
    – Non lo credo, altrimenti non ci avrebbe permesso tanto
    – Dio permette soltanto la partecipazione alla sua opera, ma guai a coloro che barano
    – E noi barammo pretendendo di somigliargli. In suo nome conquistammo gli spazi e spogliammo gli astri della loro bellezza. La nostra presunzione ci spinse a utilizzare la verità a nostro piacimento, senza comprendere che invece avremmo dovuto creare un universo spirituale dove depositare l’immensa conoscenza
    – Quale fu la ragione della vostra condotta
    – Non lo so. Nessuno è più in grado di ricordarsene
    – Mi sta frullando nella mente un’idea assurda
    – Tu non hai mai idee assurde
    – Immagina per un momento d’essere il dogma che guida l’infinito e supponi che tu abbia concesso alla stirpe che ti è più cara il potere di conferire la vita e la morte. Cosa faresti se quei doni venissero male utilizzati?
    – Glieli toglierei
    – E ciò risolverebbe il problema?
    – No se prima non si riparano i torti
    – E a coloro che ne avessero abusato li puniresti?
    – Oh Dio non lo so!
    – Li cancelleresti dall’universo?
    – No, sarebbe una punizione troppo pesante, ne soffrirei
    – Dunque si deve saper distinguere l’amore dalla giustizia?

    – Quand’ero piccino e costringevo mia madre a punirmi per qualche birbonata, soffrivo più nel vederla piangere che per la punizione
    – Tua madre era nel giusto, sapeva leggere nel tuo cuore. Io sono certa che nel cuore del mio popolo vi sia ancora amore, deve essere soltanto risvegliato come tu hai fatto con me… Forse avremmo bisogno di un’altra possibilità
    – E se quella possibilità fossi tu?
    – Non scherzare ti prego, mi fai venire i brividi
    – Cosa accadde quando Ameth si liberò dal controllo? – Domandò Fred intuendo che in lei si stava creando una pericolosa tensione
    – Ci perseguitò esattamente come lo avevamo addestrato a fare
    – Quali armi avevate da opporgli?
    – Nessuna, tranne la possibilità di trasformandoci in esseri di puro plasma energetico, ma questo peggiorò le cose
    – Vi raggiunse anche in quella condizione?
    – No, non avrebbe potuto, ma scegliendo di vivere in quella condizione perdemmo la capacità di riprodurci secondo natura e pur di salvarci rinunciammo a quanto di bello esisteva in noi
    – Cos’era la vostra immortalità?
    – I cloni. – Sussurrò lei evitando di guardarlo. – Loro ci consentirono la sopravvivenza, ma dovemmo rinunciare a ogni informazione genetica e molte altre cose importanti
    – Quali?
    – La prima a soffrirne fu la famiglia, non nacquero più bambini e noi iniziammo a vivere di utopie
    – Avreste potuto ricominciare daccapo
    – Fu tentato, molto tempo più tardi, ma ormai non eravamo più in grado di mantenere a lungo l'aspetto fisico. Analizzammo per millenni ogni nostra azione passata con la speranza di scoprire dove avevamo commesso l'errore. Furono tentati milioni di esperimenti alla ricerca di un antidoto, ma non riuscimmo a recuperare il nostro paradiso. Tra l’altro furono fecondate artificialmente alcune donne, ma non funzionò
    – Perché artificialmente?
    – Perché nel frattempo erano state promulgate leggi che vietavano ogni rapporto fisico
    – Ora capisco di dove nascono i tuoi problemi con il sesso
    – Li ho superati, ora non ne ho più
    – Ne sei certa?
    – Beh, a volte, quando ne parlo, mi sento un po’ a disagio
    – Cosa accadde a quelle donne?
    – Trascorsi i primi 150 giorni l'embrione iniziava a regredire spontaneamente. Era come se l'essere che stava formandosi nei loro corpi si rifiutasse di vivere
    – Assurdo
    – Molte di quelle donne trovarono il coraggio di proseguire nel tentativo, ma l'unico risultato fu di vederle morire l'una dopo l'altra. E così, verificato quante morti erano costate, quelle pratiche furono proibite e per evitare possibili trasgressioni furono emanate leggi severissime che prevedevano pene esageratamente dure
    – E tutto finì li?
    – Esatto, da quel momento il mio popolo tornò a vivere una triste immortalità che comunque prima o poi ci avrebbe condotto all'estinzione
    – Non avreste dovuto rinunciare
    – Per la verità furono in molti a non arrendersi… Anche mia madre provò il desiderio di avere un figlio e quando trovò il coraggio per farlo chiese a mio padre di aiutarla
    – Ora non farne un romanzo… non andò esattamente così
    – E tu cosa ne sai?
    – Nulla, non ne so proprio nulla – Farfugliò lui cercando di non mostrare l’imbarazzo del volto
    – Sei uno spudorato imbroglione – Disse lei

    – Vado a scaldarti un po' di latte – Sussurrò lui quando sentì la voce di Cristi spezzarsi per la commozione
    – Non andartene! – Lo fermò lei – Ora tu puoi vedermi piangere
    – Non è così importante, possiamo parlarne un'altra volta

    Sara s'interruppe e soffocando un gemito si asciugò gli occhi con le mani. – Scusami – Sussurrò singhiozzando

    Fred le passò il suo fazzoletto a fiori e lei si soffiò rumorosamente il naso.

    – Mi vergogno profondamente – Mormorò Fred
    – Non devi. Credevo di doverti delle spiegazioni
    – Come hanno potuto pensare di poter disporre liberamente della vita di altri esseri
    – Lo abbiamo sempre fatto
    – È triste
    – Si, ma prima di giudicarli prova a domandarti cosa resta ad un uomo che non può procreare
    – Sarebbe stato meglio finire nel nulla. Esiste un codice che dovrebbe essere rspettato
    – Di quale codice parli? Dell'onore? Beh, è da troppo tempo che quel codice non fa più parte del bagaglio del mio popolo
    – Stai tentando di dirmi che furono tentati altri esperimenti del genere?
    – Sull'altare della nostra stupidità furono sacrificati non so più quante umanità
    – Dio mio, ma nessuno ha quel diritto – Mormorò lui
    – A noi era stato concesso, ma commettemmo l’errore di abusarne cancellando le nostre coscienze
    – No, voi non le cancellaste, le utilizzaste per mascherare le vostre debolezze
    – E tu sai dirmi a cosa serve una coscienza quando si ha il nulla come traguardo?
    – Gli uomini di questo pianeta vivono tutta la loro esistenza sapendo di invecchiare e morire, eppure convivono serenamente con le loro coscienze
    – Per ridare vita alla nostra razza avremo bisogno di migliaia di uomini come tuo padre e donne come tua madre

    Lui la sollevò sulle sue ginocchia e lei, facendosi piccola piccola parve scomparire tra le sue braccia.
    – Ho paura Fred – Mormorò
    – Non sarà facile, ma ti è stata concessa una forza che non teme confronti
    – Dovrò prima battermi con Ameth
    – Si, ma non dovrai tornare ad essere quella di prima. La forza che ora vive in te è capace di purificare e popolare le solitudini e se saprai utilizzarla l'universo udrà echeggiare grida di vittoria che faranno tremare i mondi

    Sara scese dalle sue ginocchia rimanendo in piedi con il capo inclinato e lo sguardo lucente nella posa in cui molti pittori hanno dipinto gli angeli
    – Farò ciò che deve essere, – Bisbigliò sollevando su di lui lo sguardo in cui l'immensità che la permeava era evidentissima – purché tu mi sia accanto
    – Non sarò io il tuo compagno – Sussurrò lui
    – Mi lascerai sola?
    – No, sarò sempre nel tuo cuore
    – Fred! – Sussurrò lei – Perché ora che ci sentiamo più vicini la timidezza si è dissolta? Perché ho il coraggio di entrare nei tuoi occhi mentre prima osavo guardarli di sfuggita?
    – Forse perché sei tornata in possesso della tua unicità
    – Unica io? Bugiardo che sei! Tu sei unico. Se non fosse stato per te Ameth avrebbe avuto la sua vittoria. Sono tue le armi che userò per batterlo
    – Stai dicendo un carro di sciocchezze, sai bene che non posseggo armi
    – Oh Fred, ho cessato da un pezzo di contraddirti, ma lascia che questa volta possa farlo. Sai bene che senza di te sarebbe stato tutto diverso
    – Vuoi farmi arrossire?
    – Lo meriteresti per le volte che hai fatto arrossire me
    – Non è vero! Non ho mai fatto una cosa simile
    – Soltanto un'ora fa, pur di non mostrarti il rossore del mio volto mi sono arrostita davanti alle fiamme, ma di cosa sei fatto?
    – Non lo so, ma credo d'essere di carne, ossa e in possesso di uno stomaco che reclama. Cosa prepariamo per il pranzo?
    – Dio, ma lo senti? Potrò mai vivere senza di lui?... Nella ghiacciaia abbiamo ancora una bistecca
    – Se è come l’ultima ci mangiamo in due
    – Lo abbiamo sempre fatto
    – Allora cosa aspettiamo? Guarda che magnifica brace
    – Okay, vado! – Disse lei avviandosi seguita dal suo gatto
    – Un momento, toglimi una curiosità. Quel tuo modulo, cosa ha fatto credere a quei signori?

    Lei si strinse nelle spalle senza rispondere.
    – Avranno pur dovuto domandarsi cosa eravamo l'uno per l'altra, non ti pare – Insisté lui
    – Ha fatto credere loro che fossimo padre e figlia. Non ti dispiace vero?
    – Neanche un po'

    Lui stava ancora grattandosi la barba compiaciuto quando lei lo chiamò dalla cucina
    – Fred! Posso chiederti una cosa?
    – Ahi ahi! Quando gridi a questo modo sento sempre un prurito sulla schiena
    – Dai sii serio, posso?
    – Cosa vuoi sapere?
    – Quello che hai detto prima è la verità?
    – A proposito di cosa?
    – Che con la gonna sembro più bella
    – Ma no figuriamoci, stavo scherzando
    – Dovevo immaginarlo – Replicò lei dopo un attimo di silenzio

    Intuendo di averla delusa Fred tentò di rimediare
    – Cosa ti succede? Non riesci più a capire quando scherzo?
    – Cosa vuoi farci, forse sto invecchiando – Ribatté lei
    – Beh, vuoi sapere come stanno veramente le cose? È vero, con la gonna sei una gran bella figliola
    – Fred! Ma sono cosa da dire?
    – Non lo so, è un'espressione che ho sentito in città
    – Allora è vero, ti piaccio di più con la gonna
    – Non è che me ne intenda molto, ma con la gonna sembri... beh insomma...
    – Insomma cosa? – Lo incalzò lei intuendo che avrebbe lasciato cadere l'argomento
    – Intendevo dire che con la gonna sei niente male.
    – Ora non essere scostumato
    – Intendevo dire che il tuo aspetto è più gradevole.
    – Sarebbe a dire che con i jeans non lo sono?
    – Non ho detto questo, è che con la gonna cominci a somigliare a una donna
    – Fred, ma io sono una donna
    – No tesoro, non lo sei ancora
    – Fammi capire bene; se indosso la gonna somiglio a una donna e se invece indosso i jeans somiglio a un uomo?
    – Ho soltanto detto che con la gonna sei più bella… Ehi, non è che ora ti monterai la testa, vero?
    – Con la gonna sono più bella, eh? Porca vacca dovrò indossarla più spesso
    – E come la mettiamo con il tuo gatto?
    – Con lui me la vedrò in privato, ora però non provare a imbrogliarmi perché me ne accorgerei; davvero ho le gambe magre?
    Lui non rispose limitandosi a scuotere il capo.
    – Fred! – Chiamò nuovamente lei affacciandosi all'uscio della cucina
    – Si?
    – Te l'ho mai detto che ti voglio bene?


    FINE

  8. .



    Il mondo di Tars


    Questa storia ha il suo inizio in epoche remotissime, pressappoco quando attorno al nostro sole ruotavano, assieme ad altri otto mondi, due pianeti, ovvero il terzo e il quarto, dall'aspetto assai simile, seppure molto diversi tra di loro e questo semplicemente perché il terzo pianeta, identificato come Terra, si era formato soltanto da 4.6 miliardi di anni e aveva avuto un processo evolutivo più complicato rispetto a quanto era invece accaduto al quarto pianeta, il suo gemello di nome Tars.
    Per questa ragione Terra era ancora un inferno di fuoco e fiamme quando Tars, raggiunto il culmine della sua evoluzione, aveva iniziato a trasformarsi in un pianeta di una bellezza ineguagliabile e dando origine a varie forme di vita.
    Il suo clima, controllato da un perfetto eco sistema, lo rese in breve un vero paradiso.
    I suoi cinque continenti, emergenti da un unico oceano, erano coperti di lussureggianti foreste, di altissime montagne e vasti laghi d’acqua dolce.
    Il suolo fertile, ricco di messi e di sterminati pascoli ubertosi, ospitava interminabili teorie di greggi. Dalle profonde foreste vergini, dov'era possibile udire lo svolgersi della vita animale libera e incondizionata, si levavano in volo frotte d'uccelli dai più vivaci colori che popolavano e allietavano le riviere, i giardini e le dolci colline abitate dai primi uomini e per questa ragione, Tars meritò, prima di scomparire nell'oblio, l’appellativo di pianeta della pace, delle scienze e culla di una nobilissima civiltà che illuminò l’intero sistema solare.
    Ma purtroppo e Tars non fece eccezione, sembra che tutto ciò che è bello e valga la pena d'essere difeso, non appena viene sfiorato da mano umana…immancabilmente si avvii verso un inevitabile declino a causa della stupidità degli uomini…Infatti, un infausto giorno, a causa d'interminabili guerre nate da insensate e presunte ragioni di superiorità e di armi incredibilmente potenti, Tars finì per esplodere portando con se tutta la sua storia e la sua millenaria civiltà…tranne una piccolissima parte di se, che da allora iniziò a ruotare attorno alla Terra e alla quale fu assegnato il nome di Luna.

    Di Tars si era persa ogni memoria nella notte dei tempi e nessuno seppe mai della sua esistenza…fino a che un giorno, alcuni astronauti, inviati sulla Luna a fare ricerche, non s'imbatterono nel più grande segreto.
    Quegli uomini ebbero la fortuna di ritrovare, nelle viscere del piccolo satellite, il ricordo di Tars e di una parte della sua storia.

    Non tutta s'intende, se ne recuperarono alcune porzioni; principalmente quella riguardante la storia della vita primitiva e più pura che germogliò su Tars…inoltre furono recuperate altre notizie riguardanti i successivi secoli di vita e purtroppo anche la parte più triste, ovvero la fredda cronaca di una fine annunciata.
    A leggerla si ha l'impressione che riguardi senza mezzi termini la storia della nostra umanità e questo fa supporre che nel momento della disgraziata fine di quel mondo, qualcosa sia giunto a noi.
    Come è perché sia arrivata non pretendo di saperlo né d'immaginarlo, però è arrivata e speriamo che almeno possa servire a mantenere nell'animo degli uomini un sacrosanto rispetto dell'unica casa comune di cui la natura ci ha fatto dono…questo ancora stupendo pianeta.

    Io ho potuto leggere, ascoltare e vedere quelle vestigia ritrovate sulla Luna e oggi qualcuno mi chiede di raccontare quello di cui sono venuto a conoscenza.
    Compito assolutamente arduo considerando la mia età, però vorrei provarci…visto mai che si riesca a cambiare ciò che di sbagliato l'uomo sta facendo?

    All'inizio del primo millennio dell'era della luce, avvenne la scoperta dell'amore e della coscienza.

    «….ancora oggi, sull’isola del sole, vi sono notti in cui uomini dalle antiche memorie si radunano sulle spiagge e attorno ai fuochi raccontano la leggenda di Hiyvv il gabbiano e della bambina che venne dal mare…e mentre attorno scende un gran silenzio, ogni giovane donna rivive nel suo cuore la loro storia d’amore.»

    «Tanti, tanti anni fa, quando nel cielo ruotava assieme al pianeta Tars l'altro pianeta chiamato Terra (per la verità sembra che il nome con cui veniva identificato fosse Gaia, ma di questo ne parleremo più avanti) i primi uomini di Tars decisero di dividersi gli spazi (che per nostra comodità chiameremo terre) di quel pianeta.
    Della bellezza di quel pianeta se ne parlava dappertutto e tutti volevano avere una parte di quelle terre su cui crescere e allevare i propri figli…La voce arrivò perfino in fondo al mare, dove una piccola cellula, (non si conosce il suo nome e per questo la chiameremo soltanto cellula) nata nelle profondità del buio oceano, interessata anch'essa all'idea di vivere su quel paradiso, provò a chiedere a suo padre, il terribile dio delle acque, di lasciarla salire alla superficie per iniziare una nuova vita e diventare donna.

    Ovviamente suo padre si oppose energicamente e fece di tutto per dissuaderla, ma della sua risolutezza la piccola cellula fu così determinata, che mettendo in campo ogni sua risorsa e tanta pazienza, riuscì, alla fine, ad ottenere il consenso…e un giorno, abbracciate le numerosissime sorelle e suo padre, che la osservava allontanarsi preoccupato e orgoglioso di quella coraggiosa figlia, la piccola cellula iniziò, sola soletta, ma con tanta esultanza nel cuore, a salire verso la luce.

    La strada che dovette percorrere fu davvero lunga e non priva di ostacoli… se non addirittura di pericoli, ma il suo coraggio vinse su tutto e quando finalmente si affacciò alla luce del sole…per poco non le capitò di morire arrostita.
    In fretta e furia fu costretta a modificare il suo stato evolutivo di creatura marina in quello più lento e complesso di creatura terrestre, dovendo imparare all’istante a respirare l'atmosfera di Tars ed alimentarsi in modo appropriato per non morire.

    Tra l’infinità di cose nuove che dovette sforzarsi di comprendere alla svelta, ve ne furono alcune di difficile interpretazione, mentre altre furono più vicine al suo spirito semplice.
    Imparò così ad amare e rispettare ciò che la circondava, beandosi di alcuni piaceri a lei sconosciuti; come quello del contatto con la sabbia dorata e meravigliosamente calda.

    Certo i primi momenti di quella nuova vita non furono del tutto tranquilli, ed ebbe bisogno di tutto il suo coraggio per uscirne indenne senza sentirsene troppo scossa.
    I primi periodi che visse su quel nuovo mondo trascorsero in un susseguirsi di scoperte, di gioie e qualche piccola delusione.
    Imparò a riconoscere tutte le creature innocue che popolavano la spiaggia, ed anche quelle che, invece, l'accolsero con scarsa amicizia.
    Imparò a difendersi, comprendendo che da ciò poteva dipendere la sua vita, imparò a riconoscere uno ad uno quei singolari esseri che sembravano essere gli unici veri dominatori di quella splendida isola e che volteggiando incessantemente nell’aria erano alla continua ricerca di cibo.

    Quelle creature volanti l’affascinarono fin dal principio e sebbene il loro aspetto elegante potesse far pensare ad esseri miti e pacifici, ben presto dovette riconoscere in loro il più pericoloso dei suoi avversari.
    E fu proprio per evitare di finire preda dei loro enormi becchi che dovette cercarsi un riparo per poter meglio difendersi dai loro attacchi.

    Per sua fortuna, poco distante dal tratto di spiaggia su cui era emersa, scoprì una cavità, a ridosso del costone sabbioso che separava il litorale da un vasto bosco d'alberi sempre verdi e di li, dove ebbe modo di trovare una sistemazione adatta al suo sviluppo, oltre che imparare varie tecniche per confondere quei cacciatori alati capì come poteva procurarsi il cibo necessario alla sua sopravvivenza.

    Per la verità in più di un'occasione fu ad un passo dall’essere preda dei loro becchi e la volta che credette d’essere ormai spacciata, uno di quegli strani animali, ma così giovane da non essere ancora esperto nell’arte del volo, divenne suo amico e la difese contro ogni attacco dei suoi compagni affamati.

    Il tempo trascorse lentamente sia per lei sia per il giovane gabbiano che divenne enorme e meravigliosamente bianco e quando le forze glielo permisero, lui iniziò a condurla con se (ben sistemata tra le piume del collo) in tutte le sue avventure di volo.

    Crebbe anche lei e pian piano acquistò l’aspetto di una bellissima bambina, i cui capelli dorati e gli occhi d’un color turchino fecero innamorare il povero gabbiano che ne divenne il precettore, il compagno di giochi e il confidente… e per lei, il suo primo sentimento d’amore.

    - Hiyvv! - Chiese lei mentre dall’alto del costone osservavano il mare - Perché hai fatto la sciocchezza d’essere mio amico? I tuoi compagni non hanno gradito questa tua difesa nei miei confronti…Perché lo hai fatto?
    Il povero gabbiano non seppe cosa rispondere. Non poteva certo dirle che l’amava, sarebbe stato stupito soltanto immaginarsi che lei avesse mai potuto ricambiare quel sentimento…e allora dette a quella domanda una semplice risposta.
    - Perché non si ha tutti lo stesso cuore

    Trascorse dell’altro tempo e lei, la bambina, crebbe divenendo una splendida ragazza che fece innamorare ancor di più il povero gabbiano.
    - E tu perché mi concedi la tua compagnia? - Chiese lui un giorno mentre osservavano un gruppo di giovani uomini avvicinarsi al mare
    - Perché sei mio amico…e per me un amico è più importante d’ogni altra cosa
    - È sciocco e tu non devi sentirti impegnata in alcun modo… - Replicò lui tentando di mascherare il piacere che quell'affermazione gli aveva procurato - Io non potrò esserti amico a lungo…alla mia razza non è concesso vivere quanto un uomo
    - E questo cosa vuol dire?
    - Che quando morirò tu rimarrai sola
    - Tutto qui? - Rispose lei sorridendo - Allora puoi stare tranquillo, tu non potrai mai andare da nessun'altra parte perché ormai sei dentro il mio cuore…e di qui non ti permetterò più di uscire.

    Trascorse dell’altro tempo, ma il pensiero di ciò che aveva detto Hiyvv e che presto sarebbe rimasta sola, iniziò a rattristarla…e a nulla valsero l’affetto e le continue dimostrazioni d’amicizia di cui Hiyvv la circondava. Inoltre, quando i giovani uomini che erano venuti per pescare furono pronti a far ritorno alle loro case, tentarono di tutto per farle comprendere che sarebbe stata cosa saggia se avesse abbandonato la spiaggia per andare a vivere nel loro villaggio…

    «Non puoi restare sola…tu appartieni al popolo degli uomini…e nel nostro villaggio avresti protezione e cibo in abbondanza…Cosa potrai mai farne della tua vita quando il gabbiano ti lascerà…Non vivono a lungo quegli uccelli e tu presto resterai sola»

    Dubbi e tristezza moltiplicarono i dolori del suo cuore e non fu facile superare indenne quel triste periodo, si sentiva confusa e incapace di prendere una decisione. Aveva compreso di appartenere alla razza degli uomini…ma troppi ricordi importanti la legavano a quella spiaggia e al suo caro Hiyvv.
    Quegli uomini seppero insistere e le loro premure seppero renderle la vita un abisso di dubbi. Lasciò trascorrere alcuni giorni sempre pressata dalle loro insistenze e una mattina, dopo aver trascorso una notte di veglia, decise che avrebbe seguito quegli uomini.

    - Addio amico mio… - Sussurrò carezzando il corpo del gabbiano - Non posso più restare con te…il mio corpo appartiene alla razza degli umani…e presto partirò con loro
    - Credevo che gli amici non si abbandonassero mai - Replicò tristemente lui
    - Io non potrò mai abbandonarti se resterai padrone del mio cuore. Per me tu non sei stato soltanto un amico… sei stato il mio coraggio, la mia forza e io ti debbo la vita
    - Ma tu appartieni agli uomini… - Commentò tristemente lui evitando di guardarla negli occhi
    - Tu mi hai insegnato che appartengo soltanto a me stessa…ed io non tradirò mai la tua amicizia
    - Allora resta con me! - La pregò lui con le lacrime agli occhi
    - Questo non puoi chiedermelo… - Singhiozzò lei - Il prossimo anno tu non ci sarai, ed io sarò sola
    - Hai ragione…scusami… - Mormorò lui comprendendo d’averla persa - Ad ognuno di noi spetta la vita per cui è stato creato e nulla può cambiare questa certezza
    - Addio mio cuore…- Sussurrò lei carezzandolo - non ti dimenticherò

    Da quel giorno la vita della bambina cambiò completamente, imparò a vivere un’esistenza del tutto nuova, ebbe molti altri amici con i quali giocò e crebbe.
    Ma se il suo volto mostrava d’essere felice e la sua vita era colma di gioiosa vitalità, ben presto cominciò a provare nostalgia del tempo trascorso sulla spiaggia, rammaricandosi d’aver lasciato cadere quel primo sentimento d’amore che ancora possente le riempiva il cuore.

    Con quei ricordi trascorse infinite notti in lacrime e dovette vincere l’istinto di razza prima di sentirsi pronta a fuggire dal villaggio e alla fine decise di ascoltare il suo cuore.
    Di soppiatto una sera lasciò la sua capanna e dopo una corsa a perdifiato che durò tutta la notte raggiunse la spiaggia gridando il nome del suo amore
    - Hiyvv…Hiyvv…Oh Hiyvv!
    Chiamò ed urlò quel caro nome, ma nessuno le rispose e lei si lasciò scivolare in lacrime sulla sabbia.

    Trascorse il giorno in lacrime disperandosi e urlando il nome del suo amato…e poco prima del tramonto, mentre all’orizzonte il sole incendiava le basse nubi, le fu rivelato che Hiyvv si era dato la morte in mare lo stesso giorno in cui lo aveva lasciato per il mondo degli uomini.

    Lei non volle credere d'essere stata causa della sua morte e continuò a chiamarlo nei giorni e nelle notti che seguirono.
    Poi, quando quel dolore divenne insopportabile, lentamente si avviò in mare…e rinunciando al sogno d’essere donna, scelse di tornare in quell’oscurità dov’era nata e dove avrebbe ritrovato il suo perduto amore.»

    #

    Pressappoco verso la fine del primo millennio dell'era della luce, sul continente Nord di Tars, iniziarono a verificarsi strani e misteriosi fenomeni.

    All'inizio furono in molti a considerarli scherzi di qualche burlone, ma quando altri cominciarono ad argomentare che potessero essere opera di belzebù, capirete bene che la cosa prese una piega diversa e in verità la cosa cominciò ad allarmare anche i più scettici.
    Le prime avvisaglie si ebbero sulla piccola isola della montagna verde. Nulla di preoccupante, soltanto qualche sparizione che somigliava a furtarelli da due soldi, però fu proprio lì che cominciarono a nascere le prime voci che misero in allarme le autorità del luogo e in particolare quelle religiose.
    - Perché le autorità religiose, direte voi?
    - Beh, state a sentire e poi capirete

    Sull'isola della montagna verde, proprio sotto la sua ombra, nascosta da una minuscola ansa che ne impediva la vista a chi veniva da mare, c'era una minuscola spiaggia ben protetta dalle correnti fredde che scendevano dal nord del grande continente e sulla quale Gull il pescatore aveva la sua casa.
    Gull era un ragazzone di circa vent'anni e quando all'alba rientrava con la barca da una notte di pesca, dopo una buona dormita amava trascorreva quasi tutto il suo tempo a curare un orticello che gli forniva verdure fresche e a migliorare la struttura di quella che con un certo orgoglio chiamava "la mia casa".
    Beh, in realtà lo era, ma non dimentichiamoci che a quei tempi le case non era come le conosciamo oggi…erano un po' meno curate e non avevano grandi comodità, ma per il buon Gull era la sua casa perché l'aveva edificata suo padre e alla sua morte ne era diventato il padrone e sovrano.

    Per la verità ci voleva un bel coraggio a vivere da solo su quella spiaggia lontana da tutto e da tutti, ma Gull era giovane, gli piaceva il suo lavoro e soprattutto era testardo.
    Prima che suo padre morisse, gli fece promettere che avrebbe avuto cura di quella casa…di ammogliarsi…e di mettere al modo un paio di figli e lui faceva quello che poteva…aveva la massima cura della casa, ma di mogli e di figli nemmeno l'ombra…e sapete perché? Perché nessuna ragazza con la testa a posto avrebbe mai scelto di andare a vivere con lui su quella spiaggia lontana dal mondo.
    Eppure a lui piacevano i bambini, ne era così incantato che inventava di continuo filastrocche divertentissime che recitava ai bambini dell'isola del sole.

    Capitava raramente, ma di tanto in tanto Gull si recava con la barca sull'isola del sole dove aveva molti amici tra i bambini del villaggio, ai quali recitava le sue ultime filastrocche.

    Gli uomini del villaggio, per prendersi gioco di lui, gli raccontavano sempre la vecchia storia della bellissima ragazza venuta dal mare che si era innamorata di un gabbiano, ma che un giorno era scomparsa misteriosamente dall'isola, facendogli poi sempre la stessa domanda
    - La tieni nascosta sulla tua isola?
    - Non ho nessuna ragazza sull'isola - Si difendeva lui diventando rosso in viso - Ma vedrete che un giorno o l'altro ve la ritroverò io quella ragazza
    Lui ci scherzava e ci rideva, ma quando rientrava nella sua isola non faceva altro che pensare a quella storia della ragazza e a volte la lasciava perfino entrare nei suoi sogni.

    La sua vita trascorreva monotona e tranquilla, ma un giorno d'inverno, visto che il mare non voleva proprio saperne di calmarsi, impedendogli così d'uscire con la barca, decise di impiegare il suo tempo a riparare il tetto della casa.
    Quell'anno sembrava non volesse più smettere di nevicare e il tetto della casa cominciava a dare preoccupanti cenni di cedimento.
    Pensò che con poche e buone assi di legno, avrebbe rafforzato la stabilità del tetto e soprattutto avrebbe eliminato tutti quei fastidiosi sgocciolii che durante le giornate di pioggia lo costringevano a sistemare, un po' per tutta la casa, bacili e catinelle affinché non si allagasse.
    Quindi indossò il mantello di pelliccia, calzò gli stivali e con l'ascia sulle spalle si avviò verso le piane del bosco di Gull (sissignore ho detto Gull, poiché fu proprio suo padre a dare quel nome al bosco sotto la montagna) alla ricerca qualche buon tronco da cui ricavare il materiale per riparare il tetto.
    Anche il mese precedente era salito fin lassù e tra l'altro aveva fatto una capatina in paese dove era stato messo al corrente di quelle strane cose che accadevano. Tutto il paese ne parlava, ma nessuno riusciva a capire chi potesse essere il mariuolo che le combinava.
    Sentì parlare di fantasmi e di magie, ma lui non credeva né agli uni né alle altre…lui era un pescatore, quindi uno con la testa sulle spalle.

    Aveva appena iniziato la sua ricerca arrancando tra la neve, quando un'improvvisa e fitta nebbia scese dalla montagna insinuandosi tra gli alberi.
    Ormai Gull si trovava decisamente lontano dalla sua casa e non appena vide scendere quel nebbione, si affrettò a riprendere la strada del ritorno.
    Non aveva certo nessuna delle paure che tormentavano gli abitanti del villaggio, ma neppure aveva intenzione di perdersi tra i boschi e dover poi trascorrere la notte al freddo, perciò si assestò sulle spalle il mantello di pelle di pecora, si calcò fin sulle orecchia il berretto e con l'ascia sulle spalle ripercorse la strada che avrebbe dovuto riportarlo verso la spiaggia.
    Ben presto però si accorse d'essersi sbagliato; sul sentiero che stava percorrendo non vide le sue precedenti tracce sulla neve e tra l'altro sembrava andasse proprio in direzione opposta.
    Infatti, quando scese la sera si accorse con una certa preoccupazione di essere ai piedi della montagna e di essersi smarrito.

    - Bel marinaio che sei! - Si disse cercando di mantenersi allegro

    Ad ogni modo le notti in mare gli avevano insegnato a non perdersi d'animo, cercò un anfratto che potesse offrigli un minimo di riparo e quando stava già per rannicchiarsi nella sua coperta, vide in lontananza un debole bagliore.
    Decise di andare a vedere di cosa si trattava e riprese il cammino con passo deciso. Man mano che si avvicinava si accorse che la luce proveniva dalla finestra di una baita in pietra, di quelle che usano i pastori quando d'estate portano le greggi al pascolo.
    - Qui troverò sicuramente un focolare e un posto caldo per trascorrere la notte - pensò Gull bussando alla porta.
    Con sua grande sorpresa non rispose nessuno.
    - Deve pur esserci qualcuno - rifletté - Le candele non si accendono certo da sole
    Bussò ancora, ma anche allora, sebbene avesse sentito delle voci provenire dall'interno, non rispose nessuno.
    Gull s'infuriò e gridò:
    - Che razza di gente vive in questa casa se non vuole dare asilo ad un viandante stanco in una notte d'inverno come questa?
    Per qualche istante sembrò che nulla si muovesse, ma poi sentì dei passi strascicati e vide la porta aprirsi di quel tanto che sarebbe bastato per far entrare un gatto.
    Nello spiraglio della porta una vecchia lo squadrò severamente.
    - Scusate buona donna potreste ospitarmi per questa notte? Credo di essermi perso? - Chiese molto cortesemente lui
    - Neanche per sogno! - Rispose poco cortesemente lei
    - Ma che accidenti avete nel cuore? Non ci sono altre case nel raggio di mezza giornata di cammino e se mi lasciate qua fuori domani morto attaccato alla vostra porta e voi scavare una fossa per darmi sepoltura
    Forse spaventata da quel obbligo certamente faticoso, la vecchia spalancò la porta borbottando
    - Entra e vai a scaldarti al fuoco, ma non c'è nulla da mangiare!

    Gull entrò nel piccolo ricovero e sentì la porta richiudersi alle sue spalle con un tonfo.
    Nel camino ardeva un bel fuoco, si accostò e fu allora che vide, sedute ad entrambi i lati del focolare, due vecchie che lo guardavano abbastanza contrariate.
    - Scusatemi tanto care signore…non vi avrei disturbato se fuori non facesse tanto freddo
    - Scusarti? E perché dovremmo scusarti…per colpa tua stasera non si berrà
    - Non darle retta figliolo. - Borbottò la vecchia che l'aveva fatto entrare - Tu scaldati e vedi di addormentarti in fretta
    Dopo di che le tre vecchie non gli rivolsero più neanche una parola, ma presero a bisbigliare tra di loro.
    Lui si avvolse nella sua coperta e tentò di addormentarsi.
    Però non riusciva a prender sonno perché non si trovava a suo agio nel piccolo ricovero e pensò che forse sarebbe stato meglio se avesse tenuto gli occhi aperti… quelle tre vecchiette non lo convincevano.
    Ma vuoi per il calduccio o perché era veramente stanco, Gull chiuse gli occhi e si concesse un sonno leggero.
    Appena il suo respiro rallentò mostrando d'essere addormentato, una delle vecchie si alzò e andò verso una grossa cassa di legno in un angolo della stanza.
    Probabilmente si erano ormai convinte che l'ospite indesiderato si era addormentato, ma Gull aveva imparato a dormire con un occhio solo per tenere sotto controllo la lenza e quando vide la vecchia aprire il pesante coperchio, estrarne un mantello d'un bel colore scarlatto e indossarlo, decise di aprirli tutti e due gli occhi.
    E fece bene poiché tutte e tre le vecchie si presero per mano e iniziarono a girare intorno alla cassa ballando e cantando una nenia ossessiva, poi all'improvviso si fermarono e gridarono con voce gracchiante
    «Al castello, al castello!»

    Con grande stupore Gull vide le tre vecchie dissolversi nell'aria in un batter d'occhio.
    Un istante dopo Gull si ritrovò padrone della stanza.
    - Vecchie streghe malefiche! - Borbottò tra se alzandosi per avvicinarsi alla cassa - Per la barba di belzebù, ma cosa c'è in questa cassa?
    Al suo interno c'era soltanto un altro mantello scarlatto, esattamente uguale a quello che aveva indossato la vecchia. Curioso di sapere in quale mondo le tre streghe si fossero involate, indossò il mantello e dopo aver fatto su se stesso qualche giro di danza intonando le nenia che aveva udito, gridò forte come avevano fatto le altre:
    «Al castello, al castello!»

    Improvvisamente le pareti della stanza scomparvero e Gull ebbe l'impressione di sfrecciare velocissimo nell'aria fredda della notte.
    Pensò che fosse arrivata la sua ora ed ebbe paura, ma ecco che d'un tratto senti mancare il sostegno sotto di se e con un grosso tonfo piombò al suolo. Guardandosi attorno dolorante, scoprì di trovarsi in una grande cantina dove le tre vecchie stavano sbevazzando smodatamente.
    Appena videro Gull le tre arpie s'interruppero e gridarono:
    «Alla cantina del curato!»
    E immediatamente sparirono.

    Per un po' Gull si massaggio le parti doloranti, poi decise di seguire le vecchie…e dopo un nuovo tonfo sul pavimento si trovò in un'altra cantina, un po' più piccina, ma ugualmente ben fornita, dove le tre avevano ripreso a sbevazzare.
    Quando le vecchie videro di nuovo il giovane si presero per mano e urlarono
    «Alla capanna, alla capanna, riportaci indietro!»

    A quel punto Gull non aveva davvero più nessuna voglia di seguirle, quel luogo gli piaceva, era caldo e asciutto e l'indomani avrebbe raccontato a tutto il paese chi erano le ladre che combinavano guai in paese.
    Osservò attentamente tutte le brocche e le bottiglie sugli scaffali, bevve un sorso ora da questa e ora da quella bottiglia, tirò giù dal soffitto un sostanzioso rosario di piccole e profumate salcicce e se ne riempì lo stomaco, poi si trascinò in un angolo addormentandosi profondamente.

    La cantina nella quale Gull era misteriosamente arrivato, apparteneva al curato del paese.
    La mattina dopo la domestica del curato scese in cantina a prelevare un po' di lardo per la colazione del sant'uomo e vedendo le bottiglie vuote disseminate per terra ebbe un moto di stizza.
    - Santo cielo - Borbottò la vecchia - Già altre volte sono venute a mancare delle bottiglie dagli scaffali, ma non è mai accaduto che i ladri si comportassero in questo modo così sfrontato…questa volta si sono pappati anche una intera fila di salcicce. Oh corona del dolore E ora chi glielo dice al curato… Era già con pronta a precipitarsi di sopra quando vide Gull che se la dormiva in un angolo con il mantello scarlatto ancora sulle spalle e con in mano qualche salciccia
    - Ora ti aggiusto io brutto ladro ubriacone - E cominciò a gridare con quanta voce avesse in corpo - Al ladro! Ho trovato il ladro! Aiuto, ora mi ammazza!
    Al suono di quelle urla Gull si svegliò, ma non fece neppure in tempo ad alzarsi che fu raggiunto da una gran legnata sulla testa che lo tramortì.
    Accorse altra gente che legarono le mani sulla schiena di Gull, gli incatenarono i piedi e lo trascinarono via come un'anatra pronta per la griglia.

    Un imponente codazzo di paesani trascinò il prigioniero al cospetto del curato, ma prima di lasciarlo avvicinare al sant'uomo, gli strapparono il mantello dalle spalle, perché era mancanza di rispetto recarsi a far visita al curato con il mantello sulle spalle.
    Gull fu interrogato, accusato di stregoneria e quindi condotto davanti al tribunale, che lo condannò al rogo.

    Per non farsi credere pazzo si guardò bene dal raccontare la storia delle tre streghe, ma ogni sua difesa fu inutile e d'altra parte non c'era nessuna possibilità di perdono per chi era stato sorpreso con il corpo del reato tra le mani.
    (Ragazzi miei dovete credermi, ma a quell'epoca la giustizia era una cosa seria e chi sbagliava pagava!)
    Nella piazza del mercato venne ammucchiata una grande catasta di legna e sopra venne legato il povero peccatore
    All'ora stabilita dell'esecuzione una grande folla si era radunata per vedere morire tra le fiamme il pericoloso ladro di vino nonché figlio di belzebù.

    Gull si era già rassegnato alla sua triste sorte quando improvvisamente gli venne un'idea.
    - Un ultimo desiderio! - gridò in lacrime - Non voglio andarmene all'altro mondo senza il mio mantello
    - Mica ti facciamo morire tra le neve - Disse il boia - Avrai un bel foco a cui scaldarti
    - Lo so, ma vedi amico mio, quel mantello me lo regalò mio padre…ed io non voglio lasciarlo qui…per favore…quando sarò in cielo pregherò per te
    - Ma tu non andrai in cielo…a te spetta l'inferno!
    - Per favore! - Disse lui - Pregherò belzebù di non venirti a cercare prima di cent'anni
    - Giura!
    - Giuro solennemente di ricambiare il tuo favore
    - Allora va bene…Oh, ma bada di non dimenticarlo!

    E così il boia gli concesse l'ultimo desiderio, gli mise sulle spalle il mantello e…Non appena Gull se lo sentì indosso lanciò un'occhiata disperata alle fiamme che già lambivano le punte dei piedi e gridò più forte che poté:
    - Alla capanna, alla capanna, riportami indietro!
    Con grande sorpresa del boia e di tutti quei bravi paesani (si fa per dire, vero?) e del curato, che nel veder sfumare la sua vendetta fu colto da un dolorosissimo attacco di bile, l'uomo e la catasta di legna scomparvero e non furono mai più visti sulla montagna.

    Quando Gull ritornò in sé si ritrovò disteso sulla neve legato come un maialino alla catasta di legna, ma del vecchio ricovero e delle tre streghe non c'era più alcuna traccia.
    - Accidenti alla mia curiosità, giuro che da oggi mi farò soltanto i fatti miei…E ora chi mi scioglie, se resto ancora un po' disteso sulla neve farò la fine del baccalà!
    La giornata, dopo la nottata di neve, era tornata ad essere limpida e Gull vide avanzare verso di sé un vecchio contadino con l'ascia sulle spalle
    - Eh amico! Mi puoi liberare da questa maledetta catasta di legna? - Chiese Gull al vecchio.
    Il contadino fece come gli era stato chiesto.
    - Ma perché diavolo ti hanno legato in questa maniera? - Chiese

    Gull ripiegò ben bene il mantello scarlatto, se lo ficcò nella tasca e guardò la catasta con aria colpevole, poi però si accorse che era della buona e robusta legna e allora si ricordò del motivo per cui era uscito di casa.
    - Ah si questa? È un carico di legna che mi ero legato sulle spalle per non perderlo e che mi servirà per riparare il tetto della mia casa - rispose - Me l'ha data il curato del paese in persona…Sai indicarmi la strada per la spiaggia piccola…sai, non ho molta dimestichezza con i boschi
    - Tu sei il pescatore della piccola spiaggia?
    - Si, sono io
    - Non è lontana, ma attento…in questo tratto di bosco si fanno strani incontri
    - Lo so bene - Bofonchio lui

    Il contadino gli indicò la strada per la spiaggia e Gull si avviò felice verso casa. Ora era quasi certo che quel mantello gli avrebbe fatto ritrovare la ragazza del mare…a allora prese a canticchiare felice…

    …la Marianna va il mulino
    mentre pigola il pulcino
    la Marianna ninna nanna
    dormi, dormi e fai la nanna
    la Marianna va la gatta
    con la testa tutta matta
    la Marianna vola in cielo
    con la neve scende un velo
    la Marianna va dal nonno
    mentre mangia pane e tonno
    la Marianna va il bambino
    mentre dorme il cavallino
    la Marianna va al castello
    la Marianna del mantello
    la Marianna ninna nanna
    dormi amore e fai la nanna...

    (Un altro frammento della fiaba che dedico a tutti quei meravigliosi esseri chiamati "Donna")

    Credete a quel tipo di amore che rinuncia alla felicità in cambio del dolore?
    No vero? Ci avrei scommesso.

    Bene, allora dovete sapere che alcuni anni più tardi, Gull si trovò a vivere l'avventura della sua vita in un fantastico paese nascosto tra i monti.

    Ora vi domanderete cosa c'entrano i monti con il mare e i gabbiani…beh, ora ve lo spiego…
    In quegli anni le cose non erano andate come Gull avrebbe desiderato, quella parte di mondo aveva avuto qualche problema, qualche guerra di troppo che gli aveva distrutto la casa sulla spiaggia e Gull si era dovuto inventare di tutto pur di poter tirare avanti, ma, a costo di fare la fame, si era sempre rifiutato di fare il soldato…la guerra gli ripugnava...Poi, poco a poco le cose cominciarono a sistemarsi e lui aveva trovato un lavoro come guardia caccia.

    Da ormai alcuni anni Gull si era trasferito sulla montagna dell'isola del sole, e considerato che il suo lavoro lo lasciava spaziare per tutto il territorio, iniziò a svolgere il proprio lavoro esplorandolo in lungo e in largo.

    Verso la fine dell'estate di quell'anno, stava facendo ritorno verso casa dopo una settimana di caccia infruttuosa ad un gruppo di bracconieri che stavano spopolando la montagna dei suoi animali più preziosi, quando, dopo aver superando gole ricche di boschi, torrenti impetuosi e soprattutto attraversato ondeggianti ponti di corde sospesi nel vuoto, improvvisamente si trovò in un luogo dove la linea verde della terra sembrava si congiungesse a quella azzurra del cielo.
    Era quasi l'imbrunire e le stelle già brillavano illuminando prati scoscesi, quando, superati gli ultimi alberi, entrò in una piccola valle dove la boscaglia s’addensava più umida e oscura, si diresse verso una piccola grotta che sapeva essere libera dai suoi inquilini e li, poco prima dell'ingresso, vide chiaramente tra i cespugli una piccola forma tremante.

    Stupito si avvicinò. Districò qualche ramo già carico dell'umidità della bruma serale e...rimase a bocca aperta.
    Davanti ai suoi occhi, riverso nell'erba, c'era un misterioso essere.

    In realtà si trattava di una ragazzetta con uno scompigliato cespuglio di capelli dorati che le spiovevano sugli occhi larghi di paura.
    Era molto carina, aveva il colore degli occhi turchini e profondi come i mari meridionali, che al pari dei capelli dorati e un minuscolo naso all’insù le davano un'espressione del tutto fuori del comune.
    Ma ciò che maggiormente attrasse la sua attenzione era un sorriso che le illuminava senza ombre tutto il volto...e poi...e poi...dove aveva visto quel volto? La conosceva?
    Rimase come fulminato, per la prima volta nella sua vita gli parve di non aver mai visto una ragazza portare in giro tanta bellezza.
    «E, tu chi sei?» le chiesi forse un po' troppo rudemente
    La ragazza nascose il capo tra le braccia e si rattrappì su se stessa; sembrava una bestiola presa in trappola.
    «Stai tranquilla, non voglio farti del male, però dovresti dirmi chi sei» ripeté nuovamente e questa volta accompagnando le parole con i gesti.

    Un po’ a segni, un po’ a parole, si presentarono. La ragazza si chiamava Cellisel, parlava un idioma quasi simile al suo con qualche accento del tutto sconosciuto.
    Era in quell’età in cui il corpo di una ragazzetta segretamente sboccia, s’addolcisce, perde le angolosità infantili, cogliendo di sorpresa ogni bambina.
    «Mi...mi chiamo Cellisel» disse finalmente lei con una vocina sottile.
    Aveva sugli occhi delle ciglia folte e lunghissime che contrastavano con il volto ancora infantile.
    «Di dove vieni? Non devi aver paura di me, sono un po' più grande di te, ma sono un ragazzo anch'io» le disse ancora mentre tentava di aiutarla ad uscire fuori da quella scomoda posizione.
    Cellisel doveva essere davvero esausta perché non appena la tirò fuori dal cespuglio e la lasciò, lei scivolò di nuovo nell’erba.
    La prese tra le braccia e la portò di peso nella piccola grotta...accese un fuoco e poi si dedicò a lei, che era stata ad osservarlo silenziosa per tutto il tempo.
    In poche parole lei gli disse di non sapere come fosse arrivata in quella piccola valle.

    Raccontò di essere arrivata su quelle montagne da poco tempo, dopo un lungo viaggio assieme ai suoi nonni.
    Non conosceva molto della sua vita...aveva le idee un po' confuse, gli confidò che forse era nata nel mare, ma di non sapere cosa fosse il mare, e che quella mattina era uscita di casa per raccogliere funghi, perdendosi.

    Per l'intera giornata aveva vagato nei boschi fremendo per ogni ombra oscura che occhieggiava dietro la scorza rugosa degli alberi.
    Raccontò di aver attraversato ponti sospesi sulla schiuma di selvaggi torrenti, e che il silenzio, solo scheggiato dall’urlo di qualche invisibile animale, l'aveva avvolta per tutto il giorno, e lei aveva avvertito su di sé le fredde dita della morte allungarsi, pronte a ghermirla al primo segno di cedimento.
    Si era fatta coraggio, aveva corso con i piedi feriti, i vestiti strappati dai rovi, la pancia vuota che gorgogliava, il cuore pesante d’angoscia e negli occhi l’immagine di sua nonna che la cercava inutilmente.
    Ricordava di avere corso angosciata finché i suoi piedi inciamparono nel frusciante tappeto di foglie ramate e li era caduta rimanendo senza forze.

    Terminato il suo racconto lei abbassò le palpebre e chiuse fuori le sue paure.
    «Sei nata nel mare?» chiese Gull con un filo di voce
    «Si, te l'ho detto…ma i miei nonni non hanno voluto dirmi altro»
    «Io conosco il mare.» sussurrò Gull «Prima di venire sulle montagne ero un pescatore. Ora stammi a sentire, ci racconteremo ogni cosa domani, adesso devi riprenderti, mettere nello stomaco qualcosa e farti una bella dormita»
    «Ho paura, non riuscirei a dormire»
    «Qua siamo al sicuro, e poi ci sono io a farti compagnia, stai tranquilla»

    Mangiarono dividendosi quel po' che Gull aveva nella sacca, poi lei si coricò nell'erba ma non si addormentò.
    Gull si rese conto di quanto fosse stanca, era cosciente e sapeva di non essere più in grado di lottare, allora la coprì con il mio giaccone e lei si consegnò al destino, qualunque cosa l'aspettasse.

    A Gull quella ragazzina piacque subito, non capiva perché provasse quella forte attrazione nei suoi confronti, ma il modo di raccontare la sua avventura fu per lui come seguire percorsi d'acqua zampillanti di risatine.
    Trascorsero la notte sotto lo stesso giaccone e il mattino successivo dopo averle fatto indossare il suo giaccone si misero in cammino per trovare quello strano paese.

    Durante i cammino Cellisel sembrò essersi ripresa, divenne più briosa ed allegra, ogni tanto si toglieva il giaccone per farlo indossare a Gull, gli raccontò di essere figlia di un grande capo del mare, ma di essere nata e cresciuta sulla terra e di essere tornata nel regno suo padre per qualcosa che aveva combinato, ma non ricordava quale fosse il motivo.
    Da quando era arrivata sulla montagna abitava con i nonni in una casina bianca con i gerani rossi alle finestre, ma di non sapere più dove si trovasse il suo paese.

    In parole povere Gull si assunse l'incarico di riportarla a casa, ma la cosa fu di qualche difficoltà.

    Scoprì poi, che il paesino dov'ella viveva era davvero un piccolissimo paese, era composto di una piazzetta acciottolata, affacciata su un panorama di rocce chiazzate di verde, e tutt'attorno una spruzzata di casette dai muri bianchi ornati da finestrine ridenti di gerani.

    Chissà quante volte avrete visto paesucoli del genere andando in montagna, però quello era diverso da tutti gli altri!

    In realtà, tranne i nonni di Cellisel, nessuno degli abitanti del piccolo paese erano a conoscenza che oltre le montagne che li circondavano, potessero esserci altri paesi e tante, tantissime persone.
    Erano tutti convinti che quelle montagne fossero le loro colonne d'ercole e che il mondo fosse racchiuso in quel loro luogo felice, dove il cielo si stringeva alla terra in un amichevole abbraccio.

    La gente non era molto diversa da quella che Gull aveva incontrato sull'isola del sole; aveva due gambe, due braccia, due occhi, un naso e perfino una bocca per ridere e cantare...Beh, in realtà qualcosa di differente l'avevano...sia gli uomini che le donne e soprattutto i ragazzi e ragazze, avevano sul viso la medesima espressione di allegra spensieratezza.
    Non era possibile camminare per le strade di quel paese senza essere felici...e volete sapere una cosa? Neppure se si girava tutto il paese si riusciva a trovare uno dei suoi abitanti che piangesse o che soltanto avesse le labbra rivolte malinconicamente all’ingiù.
    Erano certi che se uno di loro avesse pianto, quella sarebbe stata la causa della sua morte.
    Tutti sfoggiavano allegri sorrisi e le strette viuzze echeggiavano di risate argentine.
    La vita, in quel paese, scorreva come un tranquillo ruscello illuminato dal sole.

    Camminarono per l'intero giorno e sul fare della sera, un po' per fortuna e un po' perché Cellisel pian piano riconobbe luoghi a lei sempre più amichevoli, giunsero ai margini di uno strano paese.
    Fu accolto con un po' di diffidenza iniziale dai parenti di Cellisel, ma poi le cose migliorarono e trascorse la notte nella loro casa, dormendo finalmente in un morbido letto.

    Il giorno dopo fu presentato alla comunità che gli fece gran festa e ben presto si rese conto della felicità che, come un dolce sciroppo, scorreva per tutto il villaggio.
    Allegre risate si sentivano echeggiare nelle case e per strada, e i visi della gente sembravano avere rubato la luminosità al sole.
    Probabilmente l’aria che si respirava in quel luogo sperduto era impregnata di un’ilarità perenne e nessun abitante sfuggiva al misterioso influsso.

    Gull decise di rimanere qualche giorno ospite della famiglia della piccola Cellisel, e invece finì che il tempo trascorse veloce tra quella gente che non conosceva tristezza, ai giorni si aggiunsero i mesi e ai mesi gli anni.

    Nel frattempo Gull si era fatto un bel giovane, beh per la verità lo ero anche prima, però...le ragazze del paese se ne erano accorte e lo segnavano col dito manifestando con sonore risate il loro apprezzamento.
    In realtà, pur essendone lusingato, a Gull la cosa non interessava più di tanto. A lui interessava soltanto Cellisel.

    Una sera, nell’ora in cui il tramonto ramato si stemperava nelle prime ombre notturne, Gull si recò alla grande cascata dietro il paese.
    L’acqua precipitava con selvaggia violenza lungo una gola verde di muschio, e all’improvviso, quasi stregato da tutto quel fragore, la sua mente volò lontano, al di là delle alte cime, oltre i boschi popolati di ombre, fino alla sua casa sulla piccola spiaggia.

    La nostalgia, soffocata da quel mondo artificiale di felicità, gli rovinò addosso di colpo.
    Intuì che solo con il pianto avrebbe potuto dare sollievo all’oscura angoscia che avvertiva nell’animo; ma i suoi occhi rimasero asciutti e la bocca, come il solito, stirata in un misero sorriso.

    Staccatosi a fatica dalla visione, alzò gli occhi verso le cime che foravano la notte e urlò con tutta la forza dei suoi polmoni:
    «Chiunque tu sia, dio, mago o strega che hai gettato un incantesimo su questo paese, io ti invoco! Lascia che il dolore si riversi fuori di noi e non rimanga nascosto nel cuore come un animale nella tana! Abbiamo il diritto d’essere uomini come tutti gli altri sulla terra!»
    Le sue parole tagliarono come lame affilate l’aria bruna.

    La cappa pesante del cielo, punteggiata di stelle, ebbe un lungo brivido e una voce non umana precipitò rombando dagli spazi cosmici:

    «Piccolo uomo temerario, come osi interpellare con tanta arroganza il dio della felicità? Io ho donato a questo popolo una vita senza sofferenze. Da allora è sempre vissuto felice; perché vuoi insinuare il dubbio nei loro animi gioiosi?»

    «La loro è una gioia artificiale.» replicò rabbioso Gull «La gioia da sola, senza le altre emozioni dell’animo con cui confrontarsi, è piatta, non ha spessore. E’ come uno strumento monocorde in cui vibra in eterno un’unica nota. Non ha nulla di umano.»

    «Sciocco ragazzo, non sai godere del privilegio che la sorte ti ha donato!» disse il dio della felicità «Scioglierò soltanto te dal sortilegio, ma dovrai abbandonare il mio felice paese e tornartene nel mondo degli uomini tristi. Tu mi hai chiesto di ridarti tutti i sentimenti umani ed io ti accontenterò. Soffrirai la paura, la solitudine, l’angoscia. Scoprirai che anche l’amore non è solo gioia pura, ma anche emozione palpitante, sofferenza sottile.»

    Il dio, dopo aver pronunciato queste parole, tacque.

    Nell'aria restò per qualche attimo solo l’eco crudele di un tuono che si allontanò scivolando nel vento.
    Un lungo brivido di terrore corse tra le scure chiome degli alberi avvolti dalla notte.

    «Che ti succede?»
    Una voce ben nota lo fece sobbalzare.

    Strizzò gli occhi, un tremulo velo di nebbia era calato sfocando i contorni delle cose, e finalmente vide la sua cara Cellisel.

    Gli anni avevano disegnato sulla sua figurina morbide curve femminili, ma il volto conservava ancora la grazia selvatica dell’infanzia, con l’aggiunta però di una intensità adulta nello sguardo e fu proprio in quel momento che la riconobbe…Cellisel non era altri che la sua amatissima cellula della spiaggia sull'isola del sole.

    «Cosa ci fai qui, al buio? Con chi stavi parlando?» Domandò lei curiosa.

    «Dobbiamo andar via di qui» disse Gull
    «Andar via?» rispose lei sorridendo «E dove vorresti andare?»
    «Tornare nel nostro mondo»
    «Il mio mondo è qui...sei tu...Non sei felice con me»
    «Lo sono moltissimo, ma non è questa la vita che spetta agli uomini»
    «Tu mi hai raccontato dell'infelicità che regna del tuo mondo, dunque perché vuoi tornare?»
    «Sei la cosa più cara che ho nella vita e non voglio perderti per nessuna ragione, ma non posso più restare in questo paese»
    «Tu vuoi lasciarmi?» chiese lei spalancando gli occhi per la sorpresa
    «Oh no! Non ti lascerò mai, resteremo sempre assieme»
    «Non capisco...io non posso venire con te. Se venissi dovrei lasciare la mia famiglia e vivere una vita diversa...Non sono sicura di riuscire a sopravvivere...forse morirei...ricordi quando mi trovasti nel bosco? Ero quasi morta»
    Per la prima volta, guardandola, Gull sentì nel petto il cuore fremere.
    «Vieni qua» le sussurrò con un'emozione nuova.
    Tese le braccia per stringerla a se, ma urtò contro un invisibile ostacolo. Nuovamente l’aria nebbiosa fu percorsa da un brivido e la voce calò rombando dallo scuro velluto del cielo.

    «Ricorda le mie parole, sciocco ragazzo! Non potrai mai più avere contatti con questa gente, ormai tu appartieni ad un altro mondo. Vattene o il mio castigo ti colpirà terribile!»

    Gull e Cellisel si guardarono con le mani poggiate sulla parete invisibile, vicini, ma divisi, ascoltando in silenzio le dure parole.
    Cellisel aveva ancora stampato sul viso il suo perfetto sorriso, ma gli occhi persero per qualche istante la loro la lucentezza come se un grigio velo fosse calato ad oscurarli.
    Fu un attimo, lei apparteneva al paese felice e nessun altro sentimento poteva scalfire la sua serenità.

    «Scappiamo assieme!» propose Gull mentre con le dita disegnava sull’invisibile parete i contorni del volto di Cellisel
    «Com’è possibile che questo impalpabile ostacolo ti separi da me?»

    Volgendo poi lo sguardo con impeto verso il cielo stellato, lanciò la sua disperata richiesta:
    «Dacci, o Signore della felicità, almeno la possibilità di riunirci. Ti promettiamo che ci allontaneremo subito dalla terra su cui regni.»

    «Quello che mi chiedi è impossibile», rispose la voce rotolando nel teso silenzio della notte. «A meno che...»

    «A meno che...?» ripeté ansiosamente Gull
    «A meno che l’amore di questa ragazza sia così potente da sciogliere col suo calore l’incantesimo che la protegge.»
    «Come posso fare?» chiese lei
    «Tu ami quest'uomo?»
    «Moltissimo...più della mia vita»
    «Saresti disposta a morire per lui?»
    Cellisel era confusa.
    Da alcuni anni lei e Gull erano legati da un profondo affetto.
    Quando stavano assieme sentivano scorrere nelle vene una felicità così grande che quasi non riuscivano a contenerla completamente.

    Leggendo il suo pensiero, il dio aggiunse:

    «Per te piccola mia, che hai conosciuto il dolore della morte del tuo amore, ho dovuto creare questo artificio per non farti impazzire...ed ora che conosci solo la pura gioia ti sarà impossibile tornare a riprovare le sensazioni dolorose che ti spinsero a toglierti la vita...i sentimenti intensi portano con sé dolore. Io ti ho donato la felicità perenne, ma ti ho anche resa immune dalle emozioni profonde che consumano come la fiamma consuma la candela.»

    Nubi gonfie di pioggia, trasportate dal vento, avevano ormai nascosto la dolce volta stellata.
    L’eco delle ultime parole sfumò confondendosi con un rombo lontano.

    Rimasero soli, avvolti dal silenzio della notte, finché le prime gocce di pioggia iniziarono a frusciare leggere nell’oscurità del bosco.
    Essere così vicini, sentire i loro stessi respiri e non potersi neppure sfiorare fu un terribile supplizio.

    La pioggia prese a cadere fitta, un lucido velo vibrante che scivolava sui loro corpi tesi.

    «Ora ricordo...tu sei il mio caro Hiyvv...Oh mio Dio...ti ho ritrovato per perderti di nuovo»
    «Si, ma se non potrò più stringerti tra le braccia cosa vuoi che m’importi di stare in un mondo dove tu non ci sarai?» urlò Gull, ma la sua voce era già come morta.

    Cellisel se ne stava rigida, immobile, le mani premute sull’invisibile parete, i capelli gocciolanti. Ascoltava in silenzio le parole del suo amato che le rimbombavano nelle orecchie come un’esplosione.
    «Mi ritirerò nel bosco e lascerò che la vita si spenga lentamente, ma prima voglio accarezzare un’ultima volta il tuo volto.»

    Con tenerezza Gull sfiorò la parete d’aria con dietro il volto sorridente.

    «Scusami» disse «se offendo con la mia mano la tua immagine»
    «Ma cosa dici?» replicò lei «Tu fai troppo torto alla tua mano che ha mostrato in ciò la devozione...Oh mio bene, potessi giungere palma a palma e perdermi in un tuo bacio...Io non mi arrenderò mai, lascia che le mie labbra facciano ciò che le mani non possono...Dio! Dimmi come posso fare?» urlò al cielo
    «Puoi piangere...ma potresti morire» fu la sua risposta
    «Non m'importa»

    Cellisel accostò le labbra all'invisibile parete offrendo a Gull il suo amore ma Gull non osò neppure accostarsi, allora lei passò le dita prima sui capelli grondanti, poi sugli occhi, ed egli vide le sue labbra tremare.

    «Non vuoi baciare le mia labbra?» chiese lei
    «Non posso» rispose deciso Gull «Non posso farti questo»
    «Che cosa intendi dire?» chiese lei «Non ho capito il senso delle tue parole.»
    «Hai capito benissimo!»
    «No!» urlò lei «Oh Dio...tu vuoi lasciarti morire?! Non provare a farti del male. Perché sappi che io non potrei vivere sapendo di averti nuovamente ucciso»

    Il suono della sua voce fu come una freccia di fuoco scoccata nell’umidità silenziosa della notte.
    Inutilmente lei tentò di aggrapparsi alle braccia di Gull, le sue dita scivolarono sul nulla che li separava.

    Fu allora che in lei accadde qualcosa di imprevedibile.

    Cellisel sentì il sangue accelerare nelle vene e il cuore ritmarle impazzito nel petto.
    Era smesso di piovere e un chiarore lattiginoso s’andava spandendo nel cielo. Si portò una mano sugli occhi; li sentiva bruciare come il fuoco. Le guance erano rigate da strani rivoli lucenti...

    «Guardami» sussurrò lei «Io morirò, non tu!»

    Le immagini che all’inizio arrivarono a Gull sembrarono sfilacciate, come avvolte da una nebbia sottile, poi mise a fuoco meglio il volto di Cellisel.

    La notte era ancora scura, ma un leggero chiarore le illuminava il viso e gli occhi lucidi.

    «Ma tu stai piangendo!» esclamò Gull incredulo.
    «Si...si...»

    Cellisel aveva compiuto il miracolo.
    Istintivamente Gull la circondò con le braccia.
    Sentì il suo corpo bagnato tremare e con tenerezza la strinse al petto.
    Il tempo arrestò il suo corso, gli attimi persero i loro rigidi confini.

    Soltanto più tardi si resero conto di percepire il calore dei loro corpi. Nessuna barriera più li divideva. L’incantesimo era stato infranto.

    Cellisel si volse per un attimo a guardare il suo paese felice nella luce rosata dell’alba.
    Dormiva tranquillo, isolato dalle alte cime.
    «Addio...» sussurò

    Poi si voltarono stretti l'una all'altro e ci addentrarono nel bosco verso la loro vita.


    FINE
  9. .
    Tanti anni fa


    Trotterellavo sempre aggrappato alle gonne di mia madre e in quella lunga strada dove ho incontrato gli occhi asciutti, fermi e senza sguardo delle donne al mercato di Via Andrea Doria
    Non certo le stesse che alcuni anni più tardi offrivano arance rosse.
    Era un piccolo mercato confuso, ma ricordo l'emozione mentre ci spostavamo tra filari di camicie e banconi di pesce guizzante.
    Il fumo dei fuochi era acre e ci sovrastava appena in spirali piatte.

    Guardavo quelle donne e pensavo ai loro capelli nascosti e li immaginavo liberi e fluenti, mossi in cadente riposo sulle spalle, riconoscevo la grazia e il timore dei loro occhi, che non abbassavano mai, ma li alzavano verso il cielo.
    Non li chiudevano mai, loro non avevano paura del cielo o del rombo degli aerei.

    Gli occhi dei loro figli invece si socchiudevano spesso, nel bel mezzo di un colore o di uno banco di frutta o di un lenzuolo esposto.
    Spesso ci accostavamo al venditore ambulante di the, mio padre ne era ghiotto e chiedeva alla mamma di comprarne, se avanzava qualche centesimo e guarda caso, saltavano fuori sempre pochi spiccioli per la felicità di mio padre.
    Guardavo curioso la pelle olivastra di quell'uomo, era spessa e umida di sudore, mi incantavo udendo appena la sua voce che si ripeteva insistente, in ritmica sovrapposizione con altre del mercato.

    Il caldo era assordante e a volte mi sembrava che le voci, d'un tratto, si affievolissero e un silenzio pungente ed aspro si diffondeva in quel mercatino.

    Allora sentivo che le vene mi pulsavano all'impazzata e allora le parole della gente ritornavano.
    Parole usuali, note, materne negli accenti stretti dei vicoli romani. Parlavano con la voce di mia madre quando mi guidava a sorprendere i profumi di quel mercato, che lei classificava come il più vicino casa...
    Quel vociare che non si smorzava sotto il bagliore intenso del sole del mattino, racchiuso tra quei banchi e la strada percorsa da un rumoroso tram.

    Eppure, in quel frastuono delle ventate speziate, io assorbivo un solo profumo celestiale… quello di mia madre che mi guardava sorridendo… A volte arrossivo ma quegli sguardi, quei sorrisi erano una pronuncia insopprimibile per entrambi.

    Neppure, quando seduto al suo fianco, su quei sedili di legno del 35, il tram che ci riportava verso Monte Mario, seguivo le pennellate grigie delle nuvole, il loro movimento nell'azzurro del cielo o sul verde ostinato della macchia dell'osservatorio mentre si tornava a casa, mi distraevano dalle sue occhiate sorridenti.
    In quei momenti cercavo il porto di quelle nuvole, come io lo chiamavo, insistendo che forse fosse più in alto e servisse solo a sollevare il mio sguardo.
    Ad occhi chiusi immaginavo lo scorrere della vita di uomini e donne.

    Nel caldo e sonnolento pomeriggio, respingevo meccanicamente il bicchiere di the che mi veniva offerto da mio padre, rientrato dallo Spolettificio, lasciandogli per intero il piacere di quella bevanda, istigato dai sorrisi e dalle occhiate della mamma.

    Respiravo con calma pensando che l'indomani era prossimo e, di li a pochi giorni, sarei tornato a camminare piano verso la scuola Costanzo Ciano

    Spesso, in quei pomeriggi, guardandomi attorno, il verde mi dava l'impressione di un mare in cui le sagome nere degli uomini e delle madri, erano una incontenibile gioia.

    Allora, il mio sguardo, appesantito dalla stanchezza nella imprecisa percezione del buio della sera e delle presenze calde dei miei genitori sotto il cielo, mi trasportavano nel sonno.

    Sono trascorsi oltre settanta anni, ma ho come l'impressione di riconoscere alcuni dei sentimenti che mirabilmente, tu papà, descrivevi nelle tue poesie e novelle, delle quali devo averne assorbito l'essenza nei moltissimi anni trascorsi con voi e la mia infanzia.

    Forse per molti potranno sembrare cose ovvie, perfino banali, ma per me sono pennellate dell'anima e non della ragione.

    Che bello!


  10. .

    ALBERO




    Il tempo si contrasse... si dilatò.
    vert



    Discesa l'erta della collina costeggiai, a occhi chiusi, il meleto raggiungendo i grandi aceri che nascondevano la casa.

    Li superai lasciandomi guidare da un ricordo lontano e quando li riaprìì, sepolta in una spessa coltre di neve che le donava un aspetto così caro da serbarne il ricordo in eterno, apparve la mia casa in tutta la dolcezza di un ricordo infantile.

    Salìì le scale della veranda e prima di entrare in casa, in un atto che per anni era stato l'inizio delle mie giornate invernali, con una mano spazzai la neve che ricopriva la balaustra.

    L'interno giaceva in una penombra silenziosa.

    Lentamente richiusi la porta poggiandoci le spalle e nel tentativo di frenare il pianto serrai forte gli occhi aspirando l'aria per goderne i profumi frammisti.

    Riconobbi l'odore del legno antico dei mobili, l'aroma del tabacco e quello acre e umido dei ceppi che bruciavano e mentre in quell'aria ferma mi parve di riconoscere il buon aroma della carne che arrostiva sulla griglia, le tornarono tutti gli altri ricordi che ancora vivi aleggiavano nella mia memoria.

    Quando riaprìì gli occhi lasciai che lo sguardo vagasse alla ricerca di quelle immagini mai dimenticate; l'immenso tavolo ora spoglio dei fiori, la sontuosa scala con i suoi gradini rumorosi, i mobili scuri che sapevano di quiete, i quadri capaci di luci celestiali e più in la in un angolo accanto al camino, la cesta dei pisolini giornalieri del mio gatto.

    Una smisurata quantità di sensazioni esplosero in me dominando la ragione e fu attraverso quel velo di lacrime che vidi mio padre.

    Se ne stava seduto davanti il camino osservandomi e forse stentando a riconoscere in questa donna il suo pulcino.
    Per un tempo che parve infinito lui abbandonò la mente all'immagine lontana di uno scricciolo dal volto d'angelo e delle tante volte che m aveva tenuto tra le braccia.
    – Fallo ancora padre, stringimi a te, concedimi la pace – Sussurrai.

    Al suono della mia voce mio padre sussultò e mentre un’incontrollabile emozione lo costrinse a fronteggiare il suo cuore impazzito, mi osservò avanzare verso di lui, inginocchiarmi ai suoi piedi e poggiato il capo sulle sue ginocchia cingergli forte le gambe.

    Per lunghissimi attimi restammo in silenzio godendo di sensazioni che fecero vibrare l'aria della stanza e quando la commozione si allentò, sollevai il capo
    – Ciao – Dissi in un sussurro – Ti ricordi di me?
    Egli annuì – Sei mia figlia
    – Lo sono ancora?
    – Perché sei voluta tornare?
    – Per ringraziare l'uomo che ha fatto di me una donna…
    – Anche tua madre ha i suoi meriti

    – ... debbo molto a mia madre e sono felice d'aver vissuto questi anni al suo fianco. È stata buona con me, si è sacrificata affinché divenissi migliore... ma tu... tu sei speciale... Tu non mi hai soltanto allevata insegnandomi ad amare, tu hai voluto darmi più di quanto ti fosse stato concesso. Mi hai donato le tue ali, mi hai permesso di crescere all'ombra della tua umiltà e per questo non ti ringrazierò mai abbastanza. Mi hai preparata a vivere consentendomi di partecipare alla tua vita, di respirare la tua aria. Mi hai consolata, mi hai guidata e sostenuta nella più difficile scelta della mia esistenza, hai fatto per me ciò che soltanto un Dio è capace di fare. Oh papà! Sapessi cosa darei per tornare a rivivere tutte quelle piccole e immense gioie... Ho ancora nella mente il ricordo del giorno che mi raccogliesti in riva al lago e fremo rammentando l'amore e le carezze che mi elargisti a piene mani. Se chiudo gli occhi rivedo la nostra valle incantata, tutti i nostri amici più cari... e lei, la mia amatissima collina, così vicina al cielo. Dio mio quante cose dovrò lasciare per seguire il mio destino. Tu sapevi che un giorno avrei visto morire mio figlio, ed è per questo che hai fuso nel mio cuore l'amore più grande. Sapessi quante volte ho creduto di odiarti per tutte le pene che m'infliggevi quando ero così testarda da non voler comprendere. Da me hai sempre preteso il massimo, in ogni occasione, ma soltanto quando ho saputo perdonare chi aveva ucciso il mio bambino ho compreso che lo dovevo a te. Ora nel mio cuore esiste un amore così grande da poter amare un intero universo... oh ma tu non hai nulla da temere... poiché ovunque mi condurrà il destino, nulla e nessuno potrà occupare il tuo posto.

    – Non sono mai stato un Dio, ma soltanto un uomo che ha tentato a fare del suo meglio
    – Sii indulgente ti prego, ho ancora bisogno della tua comprensione.
    Papà si alzò e sollevatomi mi strinse a se – Può il tuo cuore perdonare il male che ti ho fatto lasciandoti andar via.
    – Ssst, non dire nulla, ora sono tornata in paradiso
    – Vi fui costretto
    – Lo so papà... lo so... ma io lasciai la mia anima accanto a te e ho sentito la tua presenza in ogni istante della mia vita.
    – Dovevo lasciarti andare o non saresti mai più rientrata in possesso della tua natura.
    – Quella sera, quando compresi ciò che ti avevo fatto, avrei voluto morire... Per anni ho vagato alla ricerca di una fonte capace di lavare il mio peccato... ma non ne ho trovate... E soltanto quando ho compreso di non avere più risorse sono tornata sulla collina
    – E lassù tutto si è compiuto
    – Ora sono in pace, ho compreso... ma tu dovrai aiutarmi a chiedere a un uomo della Terra un figlio.
    – Questo non è compito di un padre
    – E chi altri può insegnarmi ad amarlo di un amore tenero e avere la forza di lasciarlo. Io non so dove potrei trovare il coraggio per chiedergli un figlio e confessargli che dovrà morire per un popolo del quale non conosce neppure l'esistenza
    – Dovrai soltanto amarlo di un amore senza limiti. Soltanto così scoprirai l'ultimo atto d'amore.
    – Dovrò concedergli il mio corpo
    – Gli concederai il tuo cuore, il corpo non è altro che il sogno. Amalo come sai amare e in te si accenderà quella scintilla che non potrà mai avere fine... ma non potrai rivelarti... Potrai parlargli del tuo mondo, del tuo popolo e se vorrai potrai raccontargli della tua casa, della vita trascorsa nella valle, della collina, dei tuoi amici, ma non potrai rivelargli la tua natura
    – Un uomo dovrebbe avere il diritto di sapere chi è la donna che ama
    – E sarebbe giusto farne un infelice? Tu credi che rimarrebbe lo stesso uomo se conoscesse la verità?
    – Mi odierà per quello che dovrò fargli
    – Amalo con tutte le tue forze e non accadrà. Tu devi ancora scoprire la forza del suo sentimento e come saprà renderti felice
    – Oh santo cielo... ma è proprio questo che mi preoccupa!
    – Hai paura di lui?
    – No... Ho soltanto una gran fifa per quello che dovrà accadere.
    – Ciò che avverrà non va contro nessuna legge naturale.
    – Tu lo definisci naturale? Per me invece è un cavolo di problema
    – Se può tranquillizzarti saperlo, quel momento è un piccolo problema per tutti gli uomini.
    – È accaduto anche a te?
    – I ragazzi non sono poi tanto diversi dalle ragazze.
    – Forse per un uomo è meno problematico.
    – Sono soltanto due facce dello stesso problema che ognuno di noi deve affrontare con il proprio coraggio e la sensibilità di cui dispone. Vuoi che ne parliamo?
    – Di quella cosa? – Chiesi sgranando gli occhi per la sorpresa.
    – Un volta parlavamo di tutto senza troppi problemi
    – Beh, si, è vero, però questa volta è imbarazzante. Mi vergogno un po'
    – Di me?
    – No, ma ho dovuto conoscere il vostro senso del pudore.
    – Ah! Capisco
    – Davvero? Io invece non ci capisco più nulla
    – Allora perché non tiri fuori il rospo? Hai dimenticato cosa ti dissi la tua prima sera nella valle?
    – Non ho dimenticato nulla e sebbene mi renda perfettamente conto che è stato qui che ho conosciuto il sesso, mi dici come cavolo posso parlare a mio padre della mia vita sessuale? È imbarazzante...
    – Mi è così difficile pensare a te con problemi del genere... Li avevi superati.
    – È vero... ma questo è successo tanto tempo fa. Ricordi la sera che divenni donna? Avevo una fifa nera, ma riuscii a parlartene.
    – Oddio non farmelo ricordare. Quella volta fui io a non essere all'altezza della situazione.
    – Il ricordo di quelle ore è tra i più dolci che serbo nel cuore e non so come potrò mai ripagarti. Se chiudo gli occhi rivedo ancora il tuo sguardo disperato, il rossore e l'imbarazzo del tuo volto.
    – Dovetti sembrarti un vero sprovveduto.
    – Vuoi scherzare, mai come in quei momenti raggiungesti il centro del mio cuore. Non so quanti altri padri avrebbero saputo uscirne fuori senza combinare guai. Tu invece mi aiutasti a superare le mie paure.
    – Già, ma fui costretto a ignorare le mie
    – Lo so, ma questo lo compresi più tardi... e sarei dovuta venire da te per chiederti scusa
    – Perché? Non era accaduto nulla per cui dovessi scusarti.
    – Quella volta te la combinai davvero grossa, ero talmente impaurita che trovai perfino il coraggio di chiederti di fare quello che avrei dovuto fare io... Dimmi la verità, lo avresti fatto?
    – Non lo so – Sussurrò papà abbassando lo sguardo.
    – Dovevo essere proprio fuori di me per non comprendere la tua delusione.
    – Oh no, ti sbagli, non ero affatto deluso, ero soltanto spaventato e non sapevo cosa fare, ma non deluso
    – Mi comportai da vera insensata, non pensai a te... Non avrei dovuto coinvolgerti
    – Invece facesti la cosa giusta
    – Papà! Ma ti rendi conto di cosa ti chiesi di fare?
    – Beh, certo fu un bel terremoto che ci scosse entrambi, però sono sicuro che non lo avresti permesso.
    – Perché non mi avevi mai detto di quella cosa? Forse se me ne avessi parlato...
    – E come avrei potuto? Per me saresti potuta crescere altri mille anni e mai avrei pensato a te come a una donna... Tu eri il mio pulcino
    – Ed ora? Ora sono una donna? – Chiese lei sorridendo

    Papà annui abbassando lo sguardo – Certo che lo sei. Sei ancor più bella di quanto avessi mai potuto immaginare.
    – Perché mi dici queste parole abbassando lo sguardo? Debbo pensare che mi stia mentendo?
    – No, sei davvero una splendida donna
    – Tu non puoi più imbrogliarmi, ora comprendo perfettamente quando nella tua voce c’è un tono di delusione
    – Delusione? Ma che dici! Ma non è nulla... – Rispose lui troppo affrettatamente.
    – Perché papà? Ti prego parlami... non lasciarmi nel dubbio.
    – Te l’ho detto non è nulla... È soltanto che... Beh, sai come sono fatto.
    – No, non lo so, spiegamelo
    – È che... non è facile per nessun padre scoprire che sta perdendo qualcosa che credeva sua.
    – Ma non è vero! Io sarò sempre il tuo pulcino – Reagìì abbracciandolo.
    – Lo so che è sciocco e che in realtà non ti ho perduta... Ma come si fa a dimenticare tutti quei dolcissimi momenti di un'età irripetibile. In tutti questi anni ho cercato di farmene una ragione... ma non è semplice... è troppo doloroso... E ogni volta ho sentito aumentare in me un vuoto che non ho saputo riempire.

    Mentre papà parlava i miei occhi si riempirono di lacrime. Mi staccai da lui, presi tra le mie una sua mano e la portò alle labbra
    – Ti chiedo perdono, – Sussurrai – ti sto facendo ancora del male.
    – Tu non hai colpe. Questa è la vita... e nessuno di noi può farci nulla.
    – Cosa ricordi di quegli anni? – Sussurrai con il pianto nella voce
    – Ogni istante
    – Tutto tutto?
    – Tutto. – Mormorò lui con voce sottile – Ogni parola che ci siamo scambiata, ogni carezza
    – Anch'io ho dovuto ricorrere all’aiuto di tutti i miei ricordi per poter sopravvivere. Non ho dimenticato nulla... e tu non mi hai, e non mi perderai mai. Tu sei il tesoro che ho racchiuso nello scrigno del mio cuore. Ogni ora, ogni istante trascorso con te sono indelebilmente fissati in me. Sono le cose più preziose che posseggo e ovunque la vita mi abbia condotta ti ho cercato tra milioni di persone
    – Il mio pulcino ha pensato a me?
    – Ti ho cercato in ogni alito di vento, nei tramonti e in ogni mia lacrima... E anch'io ho vissuto con un vuoto dentro di me che nessuno è mai riuscito a colmare.
    – E c'è ancora quel vuoto?

    Scossi il capo socchiudendo gli occhi
    – No, è scomparso nell'istante in cui tra le tue braccia ho ripreso a volare.
    – Sei dunque tornata per vedermi piangere?
    – Sono tornata perché ti appartengo e perché dovrai aiutarmi ancora.
    – Soltanto per questo?
    – Dio, ma lo vedi cosa mi sta facendo? Mi tratti ancora come una bambina… davvero credi che nell'universo esista un altro uomo a cui potrei chiedere aiuto?
    – Non lo so, dimmelo tu
    – Non c’è. Tu sei la mia guida. Il tuo ricordo mi ha permesso di affrontare situazioni difficili come una semplice donna e se ho sofferto ho saputo pregare, se ho avuto paura ho pianto, ma ogni volta il tuo coraggio mi ha spinto ad andare avanti
    – Beh, almeno qualcosa di buono l’ho fatto.
    – Se l’hai fatto? Porca vacca ma perché credi sia tornata da te?
    – Hai forse paura di amare?
    – Ho semplicemente paura di quella cosa. Accidenti papà sto parlando di quello che un uomo e una donna fanno con il corpo! Ecco, ora l'ho detto!
    – Se ben ricordo di questo problema ne parlammo quand’eri ancora una bambina
    – È vero, ma ora che si avvicina quel momento, nella mia mente s'è creato un blocco... Porca miseria papà, io non voglio fare cose che non comprendo.

    Papà rise scuotendo il capo
    – Mi torna alla mente una bambina così testona da non voler ammettere cose che invece comprendeva perfettamente
    – Parli bene tu, ma dovrò essere io a farlo.
    – Ma tua madre cos’ha fatto, non te ne ha parlato?
    – Lo ha fatto molto chiaramente. – Ammisi guardandomi la punta delle scarpe – So quello che debbo fare e ciò che debbo aspettarmi, ma ho il terrore di farlo, lo capisci o no?
    – No! Non credo di capirti
    – Oddio papà! Ma che colpa ne ho se non riesco a farmi entrare nella zucca il perché debba farlo.
    – Perché è l'unico modo per avere un figlio.
    – Non è vero non è l'unico. Io potrei...
    – Non pensarci neppure. Comincio davvero a credere di aver commesso un errore e che avrei dovuto prepararti diversamente ad affrontare questa situazione
    – Fallo ora ti prego. Tu sei sempre riuscito a tranquillizzarmi
    – Sai bene che razza di pasticcione sono, a volte, quando mi trovo a dire cose più grandi di me, mi si lega la lingua
    – Ti prego,
    – Sapessi almeno di dove cominciare
    – Inizia spiegandomi perché deve essere così complicato avere un figlio.
    – Ma non è vero, non è affatto difficile, è talmente intuitivo che...
    – Papà! – Lo interruppi sorridendo – Conosco ciò che intendi per intuitivo. So come funziona e tutto il resto
    – Allora cosa vuoi che ti dica?
    – Prova a cancellare dal mio cuore questa maledetta fifa.
    – Questo non è possibile, quella che tu chiami fifa ti appartiene come il coraggio e il tuo amore... e poi non crederai d’essere l'unica donna ad averne. Per quanto ne so è un sentimento comune a ogni ragazza che si trova ad affrontare il tuo stesso problema
    – Beh, allora mettiamola così; riguardo a ciò che capita alle altre andrà come dici tu, ma per me è diverso
    – Non è affatto diverso, tu sei simile a loro
    – Oh santo cielo! Ma lo vuoi capire che non potrò mai farlo... io non voglio tradirti.

    Lui mi guardò stupefatto.
    – Ora non dire sciocchezze più grandi di te.
    – Sciocchezze? Oddio papà, ma io debbo concedere il mio corpo a un altro uomo e tu le chiami sciocchezze?
    – Se vuoi avere un figlio quello è l'unico modo
    – Oh signore quest'uomo è pazzo! Come puoi dire una cosa simile? Io ti amo
    – Lo so e mi sarebbe difficile vivere se non fossi certo del tuo amore.
    – Porca vacca, ma non sei geloso?
    – Se lo sono? Sono imperdonabilmente geloso. Lo sono dell'aria che respiri, delle carezze del vento quando ti sfiora, del sole quando ti bacia, della pioggia quando ti bagna, ma cosa posso fare? Posso mai chiedere alla pioggia, al sole o al vento d'ignorarti?
    – Allora come puoi propormi di concedermi a un altro.
    – Tu non ti concederai a un altro qualsiasi, ma consentirai all'uomo che ti è stato assegnato di aiutarti a dare vita a ciò che è racchiuso in te.
    – Io non potrò mai concedere il mio corpo a un altro uomo, io appartengo a te.
    – Ogni essere appartiene in eterno a chi gli ha dato la vita, ma questo non vuol dire che tu debba concluderla nel rimpianto di cose che avresti e non hai voluto fare per rimanere fedele a un sogno
    – Tu non sei un sogno, sei una delle cose più belle della mia vita. Ricordi quando ti chiesi se la nostra vita era un sogno? Ricordi cosa rispondesti? Lo hai dimenticato?

    – Potrei mai vivere senza respirare? E potrei mai respirare senza rammentarmi il tuo amore? Non pensarlo neppure
    – Oh padre, non posso farlo. Sono stata bene con te, ho trascorso anni meravigliosi, indimenticabili.
    – Lo sono stati anche per me, ma il tempo che abbiamo trascorso assieme è il più dolce da ricordare perché appartiene al ciclo incantato dell'infanzia.
    – Dio come vorrei tornare indietro
    – Vorrei dirti che anch’io faccio questo sogno, ma il tempo non concede nulla a nessuno.
    – Se soltanto osassi lasciarmi andare potrei morire di quelle emozioni. Ogni istante della mia vita con te è stato un paradiso. Oh papà, ma perché? Io ero felice, avevo tutto
    – Semplicemente perché il periodo dell'infanzia è il più incantato della vita di ogni uomo e guai se non fosse così. Quello è il tempo in cui nell'animo sbocciano i sentimenti più teneri.
    – Merito tuo
    – Non accreditarmi meriti che non mi spettano, avrei potuto fare ben poco se non mi avessi accordato la tua fiducia.
    – Voglio tornare a essere il tuo pulcino
    – Lo sei e lo sarai per l'eternità
    – Perché sono cresciuta? Perché non mi hai fermata? Il resto della mia vita non è stato come quello vissuto in questa valle.

    – Non permettere che il dolore appanni la coscienza. Accanto a tua madre hai vissuto una splendida adolescenza.
    – Voglio tornare a vivere con te e la mamma.
    – E tu credi che noi non lo vorremmo? Tornare a rivivere ognuno di quegli istanti è il mio sogno segreto, ma non è possibile, non abbiamo più nulla da insegnarti... ed ora tu hai il dovere di vivere la tua vita
    – Ma cosa dici? Io ho ancora bisogno del tuo aiuto. A chi altri potrei chiedere aiuto se non al mio uomo?

    – Sono tuo padre, non il tuo uomo
    – Oddio scusami, non intendevo in quel senso, però che a te piaccia o no resterai per sempre colui a cui debbo chiedere il consenso per amare un altro uomo
    – Questo mi rende un padre felice, ma tu non hai alcun bisogno del mio consenso.
    – Oh si che ne ho bisogno, io tremo al solo pensiero che un altro uomo possa toccarmi e se dovessi farlo senza il tuo consenso mi sembrerebbe di tradirti
    – Lasciamo da parte i tradimenti e comincia a pensare che i tuoi timori non sono affatto diversi da quelli di molte giovani donne che come te sono in attesa di quel momento magico
    – Tu lo chiami magico?
    – Beh, forse non lo sarà per tutte voi, ma è meno complicato di quanto si possa pensare
    – Come si fa a riconoscere quel momento?
    – Nel momento stesso in cui in voi scatterà qualcosa che saprà modificherà il concetto di vita. Fino a quel momento avrete vissuto di affetti e di sogni, ma poi e senza alcun preavviso, vi troverete sole con la vostra coscienza e il vostro coraggio a fronteggiare strane sensazioni d’incompletezza e di colpa. Quello sarà il vero inizio della vostra vita sociale e sentimentale e se saprete dare il giusto valore a quelle esistenze, nascerà in voi il bisogno di chiudere quel cerchio che si è aperto nel momento stesso della vostra nascita
    – A me non è accaduto nulla di quanto dici.
    – Non è detto che tutte le donne debbano scoprire nello stesso istante la vocazione per la maternità.
    – E come si fa a capirlo?
    – Per la verità questo non riesco neppure a immaginarlo, ma dovrebbe trattarsi di un’emozione così violenta da scombussolarvi in ogni senso e immagino che debba iniziare quando incontrerete lo sguardo di un certo uomo.
    – Un solo sguardo può causare tutto questo?
    – Ricordi la volta che prendesti una scarica elettrica maneggiando la pompa dell'acqua? Beh, immagina qualcosa mille volte più potente.

    – Cavoli! Allora si rischia di morire
    – No, ma certamente il vostro cuore riceverà una bella scossa.
    – Ecco fatto! Come se non fosse sufficiente quello che ha dovuto subire il mio povero cuore
    – Oh ma non vi è nessun pericolo, anzi, qualcuna afferma che sia estremamente piacevole
    – Una scarica elettrica non è mai piacevole, te lo assicuro.
    – Cosa vuoi che ti dica, io non sono mai stata una donna
    – Vorrei vedere e poi cosa succede?
    – E poi?... Ma perché non lo chiedi a tua madre? Lei saprebbe descriverti alla perfezione quanto accade a una ragazza.

    Scossi il capo con sulle labbra un sorriso beffardo
    – No, voglio sentirlo da te
    – Mi conosci, sai che pasticcione sono. Non è facile
    – Non importa, tu provaci ugualmente
    – Posso soltanto provare a descriverti quello che immagino.
    – Bravo, immagina, immagina
    – Okay ci provo, allora vediamo... Potrebbe accadere che dall'istante in cui quello sguardo vi avrà fulminate, a ognuna di voi capiti di sentirsi diversa
    – Diversa come?
    – Ad esempio il cielo potrebbe assumere colori mai visti prima, oppure guardandovi nello specchio potreste scoprire d'essere ogni volta meno belle...
    – Non ti fermare vai avanti, la cosa diventa interessante.
    – Cos'altro posso dirti?
    – Prova a inventati qualcosa. Tua moglie afferma che sei bravissimo a far vedere le stelle anche di giorno
    – Tua madre ha sempre voglia di fare dello spirito, ma lei sa benissimo come sia facile soffrire d’insonnia quando si è innamorati... o scoprire come le notti possano diventare troppo lunghe.
    – A te cos'è accaduto quando t'innamorasti della mamma?
    – Oh beh e chi se ne ricorda. È accaduto tanto tempo fa
    – Ho capito, non vuoi parlarne. Poi cos’altro potrebbe accadere?
    – Ad esempio a qualcuna di voi potrebbe accadere di provare l'irragionevole voglia di piangere senza una ragione apparente.
    – Oh che bellezza! – Esclamai ridendo
    – E magari perdere l'appetito
    – Stai scherzando, vero?
    – Niente affatto
    – Cavoli, se dovesse capitare a me sarebbe un bel risparmio! E poi?
    – Potrebbe accadere che senza una vera ragione tutto vi appaia più bello... e magari vedere splendido un giorno di pioggia
    – Sai cosa penso?
    – Posso immaginarlo, ma sentiamo
    – Che tu voglia prenderti gioco di me
    – Beh, non è detto che tutto ciò possa davvero accadere Per fortuna non siamo tutti uguali.
    – Ho paura che tutta questa storia non sia altro che una grossa seccatura

    Papà rise di gusto.
    – Non sei andata troppo lontano, in un certo senso potrebbe diventarlo davvero.
    – Quale altro guaio debbo aspettarmi?
    – Potresti voler dare un significato a ogni cosa.
    – Io do sempre un significato a ciò che mi accade.
    – Intendevo emotivamente. Ad esempio un fiore potrebbe non essere più soltanto un fiore.
    – E cosa potrebbe diventare, un sandwich?
    – Hai ancora l'abitudine di pensare con lo stomaco?
    – Purtroppo si... Cosa potrebbe diventare un fiore?
    – Un paradiso indimenticabile
    – Ooh bene!
    – Oppure scoprire come uno sguardo potrebbe farti fremere e un ritardo farti piangere.
    – Sembra che tu descriva i sintomi di una malattia.
    – È vero, e in effetti è come contrarre una malattia che nessun medico è in grado di curare
    – Quella malattia non è nuova per me, la conosco bene.
    – Ti sbagli, perché se i sintomi possono sembrare gli stessi la malattia è assai diversa
    – So bene cosa significa amare
    – Ne sono certo, ma ciò di cui stiamo parlando è un amore diverso da tutti gli altri.
    – Vuoi impressionarmi ancora?
    – No e te ne accorgerai quando scoprirai che quel sentimento è capace di cancellare dal tuo cuore ogni paura per far posto all'amore di un uomo.
    – È dunque questo l'ultimo atto dell'amore?
    – No... Il mio pulcino ha conosciuto quel poco d'amore che ho saputo donargli, quello grande di sua madre e quello meraviglioso di suo figlio. Il suo cuore ha amato la Terra, i suoi amici e i suoi nemici. Ora non gli resta che conoscere l'amore di un uomo.
    – Quale amore potrà mai essere più grande del tuo?
    – L'amore per la vita. Un sentimento capace di far fremere il tuo corpo con la potenza del tuono e che saprà farti dimenticare ogni cosa. Un'emozione che impegnerà tutti i tuoi pensieri, il corpo e l'anima.

    Sorrisi socchiudendo gli occhi in quel mio caratteristico vezzo.
    – Nulla saprà cancellarti dal mio cuore
    – Invece credo che per un certo periodo dovrò restarmene in un angolino
    – Dovrà essere ben grande quell'amore se vorrà relegarti in un angolino. In questi anni ho incontrato molti uomini e qualcuno veramente da incorniciare, ma quello che ho nel cuore è ancora più vasto di quando ti lasciai. È un incendio che non può essere più domato.
    – Lo sarà quando incontrerai l'uomo a cui sei stata destinata
    – E proverò quelle cose? Perderò l'appetito e tutto il resto?
    – Immagino di si
    – Ma se dovesse accadere... che genere di amore sarebbe il mio se poi dovrò lasciarlo? – Chiese divenendo improvvisamente seria – So bene cosa significa essere abbandonati dalla persona che si ama, si può desiderare la morte e sarebbe come andare contro i tuoi insegnamenti.
    – Anche tua madre scelse di lasciarmi e fu per la stessa ragione; la salvezza dell'universo.
    – E tu credi che la salvezza dell'universo possa interessare a un uomo che ama? Potrebbe morirne
    – Non accadrà, mi prenderò cura di lui. Ormai so essere un buon padre
    – Oddio no! Non scherzare... tu dovrai venire con me

    Papà scosse il capo
    – Mi dispiace tesoro. – Sussurrò abbassando gli occhi mentre un nodo rese la sua voce sottile – Io sono soltanto tuo padre... non mi sarà concesso seguirti.
    – Ma cosa dici! Io non voglio perderti ancora... non posso, non è giusto! – Mormorai con un malcelato sentimento di terrore nella voce.
    – Tu non potrai mai perdermi... così come io non potrò perdere te... sei mia figlia – Rispose papà carezzandomi i capelli
    – Dio ti prego, non farmi questo... – Singhiozzai – Cosa potrei farmene dell’universo se il prezzo da pagare è perdere nuovamente mio padre.
    – L’universo ti attende
    – Lo so... l’universo mi attende, il tempo mi attende... Mio dio, ma non avrà mai fine tutto questo... giurami che non cancellerai il mio ricordo dal tuo cuore.
    – Hai così poca fiducia nel mio sentimento?
    – Oh papà perdonami... sono una povera donna sola che ha paura di non farcela... Mio figlio è così lontano... ho soltanto te.

    – Sss... Tu non potrai mai essere sola, molti di noi hanno sacrificato le loro esistenze per offrire a te ogni risorsa... non tradirci... In quanto a me sai bene che non potrei sopravvivere un solo istante lontano da te... Chiudimi nel tuo cuore e portami con te... In ogni istante della tua esistenza, in qualunque realtà tu dovrai vivere, cercami... non arrenderti mai... cercami nell’aria, nelle tue lacrime, nel tuo dolore... e troverai il mio spirito al tuo fianco... un passo dietro di te, non dimenticarlo... Tu sei e resterai la mia luce, il mio fiore meraviglioso... la mia bambina... la mia sola ragione di vita.

    Dominando l'intelletto ripresi il controllo di me, serrai forte gli occhi per trattenere le lacrime e quando li riaprìì il mio sguardo era vivido
    – Abbracciami padre, – Sussurrai – fa che possa colmare di te il mio cuore

    Papà mi strinse forte a se, poi mi lasciò per voltarsi verso il fuoco morente.

    Per un lunghissimo istante rimasi in silenzio lottando con il mio dolore, poi, prima di voltarmi e uscire dalla stanza, sollevai una mano per accarezzargli le spalle, e sfiorando la sua mente con un bacio sussurrai.

    – Ora tu sei in me, sei il mio stesso cuore... Ovunque andrò tu sarai la mia guida... ed io porterò il tuo ricordo in eterno... l’universo dovrà sapere...

    La porta sulla veranda rimase aperta e papà, ascoltando i miei passi sulla neve, rivide, nella memoria, una lattina di birra che brillava alle prime luci di un'alba ormai tanto lontana.



    Edited by vert/mcb - 30/8/2021, 05:19
  11. .



    Pollicino 4 - Chi ha paura dell'Uomo nero?


    La piccola Eva Birkey non era mai stata paurosa, figuratevi che ogni volta che cadeva, fingeva sempre di non essersi fatta male e rialzandosi mormorava svelta e sorridente:
    – Nulla, non è nulla, non mi sono fatta niente!

    A volte, dopo un rimprovero provocato da qualche sua birbonata, invece di piangere come avrebbe fatto qualsiasi altra bambina di sette anni, reagiva chiudendosi in un serio mutismo ignorando l'intero mondo che la circondava, e allora non c'erano parole dolci né tenerezze che riuscivano a convincerla a sorridere.
    – Ha temperamento e un caratterino da prendere con le molle, – Diceva di lei la sua maestra, che però se la coccolava aggiungendo – ma è soltanto una deliziosa bambina
    E doveva esser vero, perché sebbene qualche altra maestra la guardasse con un senso d'ingiustificata sufficienza, i suoi compagni di classe l'adoravano per quel suo essere sempre pronta ad aiutare chiunque.
    Altre volte, quel suo caratterino, la spingeva a prendersi colpe di cui non aveva nessuna responsabilità…ma lei era fatta così, bisognava soltanto capirla.

    Eppure, a dispetto di quel suo caratterino fermo e deciso, c'era un personaggio che faceva paura perfino a lei; «L’uomo nero».
    Forse aveva imparato a temerlo perché in realtà non l'aveva mai visto, oppure semplicemente perché aveva sentito raccontare alcune storie che ne narravano le gesta, o forse, chissà, molto più semplicemente la verità resterà per sempre nascosta nella sua piccola mente.

    Sembra impossibile, ma ciò che appartiene ai sogni più difficili di quella età, sono le immagini o i personaggi che nascono unicamente dalla loro immaginazione; vale a dire quelle cose mai realmente viste e assolutamente impossibili, ma che assurgono così misteriose e inspiegabili, da affascinare meravigliosamente i bambini.

    E la piccola Eva non era poi così diversa dagli altri bambini, poiché ogni volta che assumeva una delle sue posizioni intransigenti, alla minima minaccia di chiamare «l’uomo nero», lei prima spalancava i suoi grandi occhioni, poi, allargando sul volto un sorriso beffardo si trasformava nella più dolce e tranquilla bambina.
    Da tempo immemorabile «l’uomo nero» occupa le fantasie dei bambini essendo divenuto l'agente regolatore del traffico disordinato che si svolge nelle loro piccole menti bizzarre.
    Si dice loro che porta via i bambini più ribelli in un sacco, per andare poi a gettarli nel mare. (Ma nessuno si è mai preoccupato di chiedersi che semmai questa storia fosse vera, la Terra dovrebbe risultare spopolata, mentre il mare sarebbe colmo di bambini festanti.)
    La cosa che può sorprendere è che loro, i bambini, non chiedono mai di vederlo, ed è la fortuna più grande che noi adulti abbiamo mai avuto, poiché se i bambini dovessero fare una simile richiesta, probabilmente con lui sarebbe finita e bisognerebbe inventare un altro personaggio al quale assegnare l’onere del disagio.

    Cosa in verità difficilissima, poiché noi adulti non mostriamo mai sufficiente fantasia, preferendo ricorrere sempre alle vecchie panzane.
    In un'antica fiaba della cultura ebraica, si racconta che quella figura nera sia stata inventata da Noè per tenere a freno i suoi nipoti, ed è forse per questo motivo, visto che ha sempre funzionato, che in seguito mai nessuno si è preso il disturbo di sostituirla con qualcosa di più moderno.

    Difatti, quell'inquietante figura si è sempre trasformata in una specie di talismano, un toccasana al quale ogni famiglia si è sempre appellata nei momenti in cui i loro bambini non vogliono sentire ragioni.
    Nel mio intimo l'ho sempre ritenuta una sciocchezza e soprattutto una meschinità; però di tanto in tanto accade che qualche eccezione tenti di consolidarne la validità, e neanche a dirlo, un giorno alla piccola Eva venne in mente di chiedere a suo padre di vedere «l’uomo nero».

    Ecco fatto! La frittata era bella e servita in tavola!

    Un po’ intimidita, ma con molta fermezza, Eva chiese allo stupefatto genitore se avesse potuto incontrarlo di persona.
    Al buon papà, forse intuendo che sarebbe stato più arduo farle cambiare idea che accettare la bizzarra richiesta, non restò altro che accoglierla.
    Immediatamente dopo aver preso l'impegno, il buon papà si rese conto che se non voleva perdere l’alleato migliore, doveva trovare la maniera di rendere visibile il crudele personaggio… Già! Ma dove trovare qualcuno disposto ad impersonare «l’uomo nero»?

    Dal giorno della richiesta il buon papà lasciò trascorrere del tempo, un po’ perché gli impegni di lavoro gli sottraevano molto del suo tempo, ma soprattutto perché si era reso conto che l'impresa era assai più complicata di quel che avesse supposto.
    Pensò di rivolgersi al fabbro; lui era esageratamente sporco e aveva la faccia sempre nera di fuliggine, ma purtroppo l’aveva anche bella tonda e troppo bonaria, e soprattutto s'inchinava rispettoso perfino alla piccola Eva, quindi quale impressione poteva fare su di una bambina abituata a ruzzolarsi per terra per delle ore?
    Pensò al baffuto e grosso brigadiere dei carabinieri.
    Quell’omone grande e grosso era un altro discreto candidato, ma si vedeva troppo spesso a passeggio, trascinandosi dietro due mocciosi maleducati e noiosi.
    D’altra parte non andava bene neppure l'uomo spettro (l'uomo che anni prima egli stesso gli aveva imposto una settimana di guardina per aver impaurito, di notte, una ragazza travestendosi da spettro).
    Cribbio! Lui si che ce l'aveva l’aspetto terribile, però partiva con un handicap notevole; cominciava a ridere la mattina appena alzato fin quando non andava a letto, senza contare che tutti i ragazzi del paese si onoravano della sua amicizia, ed erano molto fieri di chiamarlo con quel suo strano soprannome: «Ah! ah! ah!».

    Certo che queste prime difficoltà fecero comprendere al buon papà, che in fondo gli uomini del paese avevano tutti un aspetto troppo pacifico, e di conseguenza non era proprio il caso d’insistere in quella direzione, e constatato che gli uomini sembravano essere tanto più mansueti delle donne, pensò alla possibilità di una «donna nera», ma l'idea gli parve troppo bizzarra e forse un tantino rischiosa nella realizzazione per farne parola con sua moglie.
    Perfino i barboni di quell'amabilissimo paese dovevano essere nati tutti aristocratici blasonati, giacché avevano tutti quel modo buffo di camuffarsi da innocui borghesi, con i calzoni troppo corti e l'incedere saltellante.

    Nulla da fare! Ormai era proprio nei guai e a quel punto se avesse ancora detto – «Bada che chiamo l’uomo nero» – e la bambina avesse risposto di chiamarlo, sarebbe crollato tutto un tenace lavoro d’anni ed anni.

    Per la verità aveva perfino pensato di trasformarsi egli stesso nell’uomo nero, tant’è che davanti lo specchio aveva provato e riprovato a fare il viso cattivo indossando un gran paio di baffi posticci, ma subito arrossiva e doveva smetterla in fretta, soprattutto perché se la piccola Eva lo avesse sorpreso, sarebbe sicuramente scoppiata a ridere divertita.

    Passò del tempo e infine giunse la prima domenica di primavera. Una di quelle giornate in cui ci si può divertire a strappare i veli delle cose misteriose, ed ecco che improvvisamente, mentre il buon papà passeggiava al braccio di sua moglie, con la piccola Eva stretta alla sua mano, vide venire verso di loro «l’uomo nero» in carne ed ossa.
    Si trattava certamente dell’uomo ideale, di quelli che non si scordano più: ossuto, giallo in volto, con un lungo naso a becco e le labbra piegate in un ghigno sottile. Indossava un abito sgualcito e nero come la notte, che rendeva la sua figura ancor più triste di quanto fosse in realtà.
    – Quello, – Gli sussurrò sottovoce sua moglie – era il professore di latino del liceo, ma siccome aveva la cattiva abitudine di battere i ragazzi è stato messo anticipatamente in pensione
    «Una vera anima dannata» – Pensò il buon papà, ma a lui interessava l’aspetto dell’uomo e non i suoi vizietti.
    – Nessuno l'ha mai visto sorridere – Aggiunse sottovoce sua moglie

    In un primo momento il buon papà ebbe qualche dubbio se mostrarlo alla bambina, ma quando si accorse che Eva lo aveva già adocchiato e sul suo faccino si era abbozzata una certa espressione preoccupata, egli, per una delle tante incomprensibili vanità di certi papà, ma principalmente per evitare che alla fine dovesse ammettere di aver detto una grossa bugia, non appena l'uomo fu a pochi metri da loro, egli disse sottovoce alla bambina:
    – Vedi quell’uomo cara? Ebbene quello è «l’uomo nero»
    La piccina sollevò su di lui uno sguardo sgomento
    – Babbo… ma è terribile! – Sussurrò aggrappandosi alla sua mano
    A quel punto, certo ormai della sua vittoria, il buon papà mormorò con troppa sciocca fierezza nella voce – Vedi che avevo ragione? I papà non dicono mai bugie

    Eva, che non aveva staccato un solo istante gli occhi da quella faccia di gufo stravolto, s’irrigidì, e lui, il buon papà, non tardò a darsi dell'idiota per averle causato quell'agitazione.
    «Qualche volta, dovette pensare a sua parziale giustificazione, è molto difficile comportarsi in modo intelligente, perfino i giudici credendo di scherzare possono combinare dei grossi guai. La tristezza, ad esempio, i figli la imparano dai genitori che non si curano di nascondere le loro preoccupazioni»

    Per tutto il resto della passeggiata Eva tacque tenendosi sempre ben stretta alla mano del padre, e qualche volta osò perfino lanciare alle proprie spalle brevissimi sguardi.
    Nel frattempo, il padre, considerato che forse era stato un grosso errore quello d’averle mostrato «l’uomo nero», decise che da allora, l'unico rimedio sarebbe stato quello di non parlarne più.

    Ma tutto si paga in questa vita, poiché un giorno «l’uomo nero» andò a far visita al giudice Birkey, direttamente nella sua casa.

    Era stato messo in pensione anticipata, e questo in realtà era stato come averlo messo in ristrettezze economiche, poiché non è cosa nuova a nessuno che vivere di pensione è alquanto difficile.
    Ed ora il poveretto era alla ricerca di una nuova occupazione che potesse integrare la magra pensione.
    Si era rivolto a tutto il paese, ma tutti si erano scusati di non avere conoscenze, e allora, preso dalla disperazione era salito verso quella casa sulla collina, per non lasciare nulla d'intentato.

    Il giudice Birkey, ovvero il papà della piccola Eva, era perfettamente al corrente dello scopo di quella visita, e pur sapendo che non avrebbe potuto far nulla per risolvere il problema, l'aveva tuttavia ricevuto per correttezza, ma mentre l’uomo parlava illustrando le sue difficoltà, egli cominciò a temere che potesse entrare la bambina nella stanza, tanto più che dal giorno che aveva visto «l’uomo nero», la piccina era divenuta buonissima e nessuno in casa aveva più osato nominare neppure per giuoco l'odiosa figura.
    «L’uomo nero» parlava a scatti come se fosse già furioso di dover chiedere un favore ad un giudice, e quando ricordava ciò che gli era stato riservato, più di un’imprecazione gli sfuggì dalle labbra.
    Per timore che s'infuriasse del tutto, il padrone di casa promise di interessarsi al suo problema, anzi gli promise che avrebbe provveduto senz'altro a trovare un rimedio alle sue necessità.

    «L’uomo nero» si limitò a ringraziare a bassa voce e si alzò con il volto più disteso. Aprì da solo la porta dello studio per uscirne…e si trovò davanti alla bambina che in quel momento stava entrando.
    Lei lo riconobbe immediatamente. Lo guardò per qualche istante e subito dopo si volse verso il padre con occhi grandissimi di una serietà indicibile, quindi tornò a fissare «l’uomo nero», che teso com'era chiese in tono cupo alla piccola:
    – Cos'hai da guardare? Mi conosci?
    – Sì,– Rispose la piccola con miracolosa tranquillità – sei «l’uomo nero»
    L'uomo spalancò gli occhi e scosse il capo, ma poi parve comprendere, e allora, voltatosi verso il padre sogghignò
    – Servo anche a questo, vero?
    Poi, tornato a guardare la bambina, le chiese ancora con un tono di voce terribile
    – E tu perché non scappi? Non hai paura che ti chiuda in un sacco?
    Eva restò un attimo perplessa, alzò le spalle e rispose con la sua vocina coraggiosa e fiera.
    – E tu perché non vai fuori di casa mia? Non sono più una bambina cattiva!

    L'uomo ne fu incantato.
    Sorrise e improvvisamente parve che tutta la meschinità del suo volto sparisse.
    Ora il suo sorriso aveva l'ingenuità delle cose nuove, era maldestro e puro come la prima carezza.
    – Brava, – sussurrò con voce sottile – io non amo i bambini sciocchi. Perché non basta essere bambini buoni, bisogna almeno avere un gran coraggio come l'hai tu!

    Poi, come se temesse di cedere all'ilarità, sparì oltre la porta.

    Nella stanza ci fu un lungo silenzio, poi, mentre Eva si diresse nell'angolino dove erano riposti i suoi giochi, suo padre riprese il lavoro alla scrivania, osservando di tanto in tanto la sua piccola e coraggiosa Eva.
    Anche lei per un istante distolse l’attenzione dalle sue bambole, guardò suo padre e notando il sorriso imbarazzato sulle sue labbra, gli inviò un bacio con la mano, poi tornò ai suoi giochi e prese a canticchiare felice una ninnananna.

    Finalmente si era dileguato un cattivo fantasma, e con lui era svanita una grossa bugia.

  12. .


    SARA… INIZIO DELLA MIA STORIA
    by MCB
  13. .
    Ripafratta



    “…Questo è il Serchio
    al quale hanno attinto
    duemil’anni forse
    di gente mia campagnola
    e mio padre e mia madre…


    (Giuseppe Ungaretti,
    da “I fiumi” 1916)”


    "Ripafratta"
    By Mario Cotrozzi
    Dedicata ai miei genitori

    Sai mà, sai pà…
    ricordo ancora quando
    mi leggevate queste rime
    nei meriggi che trascorrevamo
    a bighellonar sul fiume.
    Erano quelli gli anni della guerra,
    degli orrori da dimenticare
    e dei dolori mai sopiti.

    Ne è passato di tempo,
    ma quel nostro paese l'ho
    spillato sul mio cuore
    e se chiudo gli occhi
    mi tornano alla mente
    i suoi colori,
    i suoni, le voci
    del suo fiume.
    I profumi
    e quella quieta austerità
    d'antiche mura
    che dal colle dominavano silenti.

    Rivedo la piccola stazione,
    incastonata
    nell'ombroso viale
    verso Lucca,
    la via sterrata volta
    all'ultima dimora,
    domicilio nostro e delle
    antiche schiatte.
    La forgia scintillante
    e la possente ruota
    che muoveva la pietra
    per molare.

    Questa sera
    deve avermi
    sfiorato un angelo,
    poiché odo ancor
    diffondersi nell'aria
    il colpo doppio
    sul maniscalco corno,
    l'aspro odor di zoccolo
    dei cavalli da ferrare,
    lo scroscio della fonte
    e la campana del
    passaggio ferroviario.

    Della tua casa, pà,
    ricordo gl'innumerevoli
    gradini,
    la vaste stanze
    e quell'austera madia
    dove in panni immacolati
    la nonna affidava al
    tempo il pane.

    Sul retro l'orto,
    che il nonno
    lavorandolo a piccole terrazze
    s'acquistava il colle.

    Più avanti,
    all'ombra di una antica chiesa,
    v'è l'asilo avvolto nell'alloro…
    e quel negozio,
    di cui mi sfugge il nome,
    dove frammisti
    ai volti della gente,
    m'incantavano i profumi
    e quelle ironiche battute
    con la "C" mancante.

    Nell'agreste quiete
    dei tramonti
    odo ancor le nostre voci,
    che al vespero ci
    davam nei campi
    e quei fruscii
    di macchie lungo il fiume
    ch'erano cornice
    alla steccaia spumeggiante.

    Io son li,
    su quel sentier che
    serpeggiando il colle,
    mi guidava all'albero proibito
    e di lassù,
    dove i sogni sapevano volare,
    la tua casa, mamma,
    m'incantavo ad osservare.

    Oh si,
    mi ricordo di quella
    grande casa silenziosa
    dove tutto m'era dato
    per amore
    e di quell'ombrosa
    stanza profumata
    d'aromi di timo e rosmarino,
    dove ogni ombra sembrava
    aleggiasse viva,
    ma dove a me non era
    concesso entrare.

    La vedo ancor com'era allora,
    col suo camino ardente
    sotto la vasta scala,
    luogo e tempo in cui
    la schiva gente di famiglia
    i Cotrozzi e i Batacchi,
    la sera s'incontravan.

    L'odore antico
    dell'arredo scuro
    ed imponente,
    gli scricchiolii del legno
    che di notte
    m'incutevano spavento,
    i rintocchi della pendola francese,
    le vostre fiabe,
    i sogni,
    i dolci,
    le troppe stanze silenziose
    e quell'ombrosa córte
    dominata dall'imminente rocca.

    Financo lei ricordo,
    fresca lama d'ombra
    dei meriggi lungo la statale,
    luogo colmo
    di amorevoli presenze
    e d'infinite confidenze,
    che non appena sussurrate
    guizzavano nel Serchio,
    per avviarsi poi,
    ad arricchire il mare.

    Dio come vorrei ciottolare
    ancora quei sentieri
    aggrappato alle vostre mani.
    Vorrei spaziare,
    vorrei migrare,
    vorrei che il tempo si torcesse,
    e voi, amori miei,
    mi veniste incontro,
    per assopirmi ancora
    sui vostri cuori.

    Nulla è mutato nel mio cuore;
    voi e quel sorriso
    che mai faceva da scudo
    al vostro viso.
    Il caldo nido
    e il ricordo vostro
    m'han donato
    il sapore dell'antico
    ed io lo porto in me
    questo nostro
    dolcissimo paese.


  14. .


    Pagine di quartiere, 1992


    Il problema di questa generazione è che i giovani si sentono tutti dei geni, ma forse lo sono sempre stati. Far qualcosa non è abbastanza per loro e neanche uccidere o rubare è qualcosa, no, loro debbono essere qualcosa, vogliono tutto e subito altrimenti se lo prendono con le buone o le cattive.
    Si cominciano a vedere giovani tatuati, quel messaggio era il segno dell'uomo in carcere, l'arte lugubre dei reclusi e dei condannati. Che stia diventando arte può indicare questo: che la carcerazione perpetua è ormai una condizione stabile, che non ci sono più differenze tra la prigione, il muretto o la casa.
    È privilegio della giovinezza vivere in anticipo sui propri giorni, in tutta la bella continuità di speranze che non conosce pause o introspezioni. Si chiude dietro di noi il cancelletto della pura fanciullezza e ci si addentra in un giardino incantato. Persino le ombre vi risplendono promettenti. Un sentiero pieno di seduzioni e non perché sia una terra inesplorata. È il fascino dell'esperienza universale dalla quale ognuno si aspetta una sensazione particolare e personale – un po' di noi stessi.
    È l’inalienabile diritto in quanto cittadini del ventunesimo secolo?

    Non lo so, però certe volte accadono eventi inspiegabili; come due vite che s'incontrano tra miliardi di altre e per pochi istanti interagiscono tra loro come stelle che si scontrano, per poi dividersi e perdersi nei loro universi paralleli.

    Questa storia la vissi personalmente molti anni fa e spero vorrete perdonarmi se rubo un po’ del vostro tempo per leggervi qualche pagina del mio diario…

    Ero andato a far visita a mia madre… per la verità lo facevo ogni settimana per mantenere in giuramento che avevo fatto in punto di morte a mio padre.
    Salivo in quel di Monte Mario e mi beavo percorrendo a piedi la mia adorata via Aristide Gabelli, che fu il paradiso di tutta la mia infanzia. Un quartiere della estrema periferia di Roma, abbarbicato su una collina allora ancora verde, di dove, nelle notti trasparenti dei nostri inverni, era ancora possibile cogliere i margini della città verso le montagne.

    Quella mattina mia madre mi aveva chiesto di andare in farmacia a ritirare un farmaco che le serviva per la pressione… Ci andai volentieri cotivando la speranza di incontrare qualche vecchio amico.
    Entrai nell’unica farmacia di allora, mi misi diligentemente in fila e fu allora che vidi il suo Borsalino sulle ventitre svettare su tutti.
    -Valerio! – Lo chiamai a bassa voce
    Non ci vedevamo da oltre trent’anni
    Lui si voltò e mi sorrise facendomi cenno con la mano di vederci fuori. Lo osservai mentre si avvicinava al banco con le due ricette in mano.
    Camminava lentamente e mentre si avvicinava borbottando, come se stesse cercando di ricordare le esatte parole che avrebbe dovuto dire alla farmacista, passò la borsa della spesa, piena fino all'orlo, da una mano all'altra, peccando forse di un pensiero ingeneroso nei riguardi di Pina, sua moglie, che, nel suo amore per i fiori, forse non si era resa conto di quanto pesassero due sacchi di terriccio.

    La farmacista uscì dal retrobottega nello stesso istante in cui un ragazzo giovanissimo, con le braccia piene di tatuaggi, varcò la soglia della farmacia lasciando sbattere la porta.
    Valerio si arrestò, si voltò a guardarlo e dovette scorgerne lo sguardo turbato prima ancora di vedere l'arma puntata ed il gesto disperato con cui la farmacista tentò di rientrare nel retrobottega.

    Forse fu l'antico istinto, più che la paura, a spingere Valerio a gettarsi in terra quando il colpo partì facendogli volare il cappello.
    Dopo il colpo di pistola, udimmo, sulla destra, il rumore sordo di un corpo che cadeva in terra.
    «Adesso a chi sarebbe toccato» pensai mentre mi rannicchiavo sul pavimento.

    Cadendo Valerio aveva perduto gli occhiali, ma dovette riconoscere una scarpa sporca di fango fermarsi a due dita dal suo naso.
    Buffo, pensai, che l'ultima sua visione terrena, prima di presentarsi davanti al tribunale dei giusti, dovesse consistere in un paio di scarpe infangate.

    Il ragazzo urlò alcune parole che non compresi, ma vidi chiaramente i suoi occhi proprio mentre il premeva all'impazzata il grilletto.
    Il corpo di Valerio si accartocciò per il dolore al fianco che lo lasciò per qualche istante senza respiro prima di perdere i sensi.

    Accadde tutto in pochissimi istanti, poco dopo il ragazzo fuggì precipitosamente com’era entrato, allora mi sollevai e trascinandomi raggiunsi il corpo di Valerio.

    Una larga macchia vermiglia si stava formando sul pavimento, mi tolsi la giacca e la arrotolai sotto la sua testa.
    Nel susseguirsi delle immagini lui mi vide e di nuovo mi sorrise, tentai di togliergli dalle mani la borsa della spesa...
    «Eh no!» sussurrò «Fai attenzione che non me la freghino, abbiamo finito la pensione, non abbiamo altri soldi per oggi...»
    Valerio teneva lo sguardo rivolto su quella borsa che stringeva al petto, la sola cosa che sembrava avesse ancora un valore.

    Poco per la verità, com'erano state tutte le occasioni che la vita aveva concesso alla memoria di un vecchio uomo, ex di tutto ed ex di niente, in procinto di... in procinto di cosa?

    «È una cosa inaudita!» ripeteva una donna «Ha colpito anche la farmacista…povera ragazza!»
    «La pena di morte occorrerebbe...altro che pietà per questi maledetti drogati!» rispondevano quelli arrivati troppo tardi a ridare dignità ad un uomo fuori corso, rimasto senza angeli custodi, neppure nella considerazione della morte.

    Lui lentamente girò il capo verso di me... Sul suo volto sofferente spuntava un sorriso innocente, impossibile da dimenticare. Un sorriso in cui nulla di quello che vedeva riusciva a trasformarsi nella voglia di non lasciarsi andare. Prese tra le sue una delle mie mani e mi passo la borsa
    «Abbine cura! Portala a Pina… le occorre… ma non dirle cosa mi è successo… sai com’è fatta… s’impressiona subito» Sussurrò lui stringendo la mia mano «Ma a chi l'abbiamo fatta la nostra resistenza,» si chiese sottovoce «se oggi è tutto uguale a ieri... è soltanto un ragazzo! Dio abbi pietà di lui!»

    In un lampo dovettero tornargli alla memoria i turni di guardia ad un ipotetico domani.
    Tutto stava confondendosi con gli spari e lo sguardo di quel ragazzo che era venuto a bruciarsi la vita così in fretta dopo un'alba che era tornata ad offrirgli un altro giorno.

    Negli occhi di Valerio vidi scorrere ciò che non poteva più fermare... volti cari, i suoi figli, Pina… Dio mio quanta strada per nulla!

    La farmacia andava colmandosi di suoni; facili da separare rispetto a quelli che gli avevano stordito la mente ottusa dagli anni.
    In quei momenti sentii la memoria andare al passo di un sopraggiungere di grida mascherate, lui abbassò lo guardò sulle sue mani che stringevano a se le mie, poi lo sentii morire.

    Era l'autunno del 1992, o forse no...
    In ricordo di un amico andato.
  15. .


    La leggenda della lupa innamorata

    (Creai e dedicai questa leggenda ad una mamma che sul Web si faceva chiamare MammaLupa e ovviamente al suo compagno)

    Nella notte dei tempi nel cielo nacquero due fratelli: il Sole e la Luna.
    Ad essi fu affidato, in quanto dèi immortali, il compito di guidare il creato nel suo corso e insieme si contendevano il cielo.

    Il primo, Sole, luminosissimo e gigantesco, governava il giorno, il secondo, Luna, più piccino, in verità di sesso femminile, prese a governare la notte.

    Erano molto uniti e il fratello amava la sorella tanto quanto la sorella amava il fratello. Ma qualcosa opprimeva il cuore della Luna: per tutta la durata della sua vita aveva guardato il mondo sottostante solo dall'alto, senza mai potersi avvicinare al suolo.
    Aveva visto crescere la razza umana dominante… i fiori, gli alberi e aveva scoperto l'amore… ma gli altri dèi non avrebbero mai permesso che ella lasciasse la notte incustodita per scendere al suolo... e come ogni cosa proibita, la Terra era per lei un richiamo irresistibile, che le straziava il cuore.

    Tutto ciò rendeva la Luna infelice e nemmeno il fratello riusciva a ridonarle il sorriso.

    Così, un giorno, il Sole decise di aiutarla a scendere dal cielo, con la promessa che sarebbe tornata prima del calar della notte, così nessuno si sarebbe accorto della sua assenza.
    La Luna, felice, poté finalmente toccare quella terra, che per molto tempo aveva bramato.
    E fu proprio qui che ella incontrò il Lupo.
    Egli era molto bello, col pelo bianco e i muscoli possenti.
    Si guardarono per un attimo. Gli occhi oro del Lupo incontrarono quelli argento della Luna. E fu così che il Lupo si innamorò della Luna.

    Egli non sapeva chi lei fosse ed ella dovette tornare nel cielo, come promesso. Così furono costretti a lasciarsi. Ma il Lupo aveva piantato nel cuore della Luna il germoglio del primo amore, così ella non riuscì a dimenticarlo.

    Il Sole si accorse del cambiamento avvenuto nel cuore della sorella e, quando vide il Lupo sulla terra cercare la bellissima fanciulla con occhi e capelli d'oro, capì cosa era accaduto.

    Come si è già detto, il Sole amava molto la sorella e non poteva sopportare la sua infelicità. Fu così che decise che avrebbe aiutato il Lupo e la Luna ad incontrarsi. Essi si sarebbero visti di giorno, mentre il Sole distraeva gli dèi e gli uomini con la sua luce abbagliante. E così il Lupo e la Luna divennero marito e moglie.

    Lupo e Luna presero sembianze umane per amarsi meglio, ebbero una bambina e la Luna prese il nome di MammaLupa, ma così dette il via ad un meccanismo del tutto naturale che non aveva previsto… Lupo iniziò ad invecchiare.

    Mamma lupa cercò ogni maniera per risolvere quel doloroso problema non potendo sopportare di continuare a vivere mentre il suo compagno moriva.

    Alla fine dovette prendere una dolorosissima soluzione… scelse di rinunciare alla sua immortalità e di non tornare mai più in cielo.

    Gli dèi si adirarono: non potevano sopportare un simile affronto, non potevano sopportare che uno di loro abbandonasse il suo compito per amore di un mortale.
    Vi furono numerose discussioni e alla fine decisero di punire i due sposi:

    MammaLupa venne imprigionata per sempre nel cielo, riprese di nuovo il suo nome e le stelle presero a sorvegliarla e Lupo fu condannato a chiamarla incessantemente con il suo malinconico ululato, ogni notte per tutta l'eternità.

    Ancora una volta il Sole non poté sopportare la sofferenza della Luna. Egli convinse gli dèi a conceder loro la possibilità di incontrarsi ancora.

    Ed è per questo motivo che una volta al mese non si vede la Luna nel cielo: ella scende sulla Terra per incontrare il suo amato e la sua bambina e in quella notte può riprendere la forma forma umana.

    Ancora oggi, a distanza di secoli, il Lupo ogni notte rincorre la Luna nel cielo, senza mai poterla avvicinare.
    Ancora oggi MammaLupa guarda dall'alto, infelice e pallida, il suo Lupo la cerca e aspetta con ansia la notte in cui potrà stringerla di nuovo al suo petto assieme alla loro bambina.

    Ancora oggi, a distanza di secoli, un grande amore reciproco arde nei loro cuori e neanche gli dèi potranno mai più cambiare le cose.
887 replies since 18/10/2009
.